Carri armati ed elicotteri. Sistemi biometrici e satellitari. Eserciti e truppe. Il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra dominato dalla dimensione militare e della sicurezza. L’obbiettivo resta quello di bloccare gli arrivi sulle nostre coste, ma anche quello di rispondere agli interessi dell’industria italiana della sicurezza e alla concorrenza interna per una presenza che diventa, dal punto di vista geostrategico, sempre più interessante.
Militarizzare il processo di esternalizzazione, infatti, conviene a molti: alle società, in particolare i produttori di armi e sicurezza biometrica, ma anche quegli stati che con la guerra ai migranti alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente si giocano la partita dell’influenza territoriale. Una pericolosa visione politica in cui si intrecciano i principi dello sviluppo – grazie all’istituzione del Fondo fiduciario per l’Africa – e quelli della sicurezza, della migrazione e della militarizzazione, unendo interessi economici e politici.
Ma il costo umano di queste politiche è sempre più alto, sia per la popolazione dei paesi in cui gli eserciti europei si installano, sia per la vita dei migranti, esposti a rischi sempre maggiori.
Cosi come nel Mediterraneo Orientale fra Turchia e Siria, anche sulla rotta del Mediterraneo Centrale è labile il confine tra mezzi forniti per il controllo dei migranti e mezzi usati invece per la repressione della propria popolazione e il controllo del territorio.
Tra le prime missioni militari messe in campo c’è EunavForMed, che da contrasto al traffico di migranti diventa uno degli organi di formazione – in collaborazione con i militari italiani – della Guardia costiera libica, dando così il proprio contributo, nel 2017, al respingimento nell’inferno libico di 20 mila uomini, donne e bambini.
Ma è tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 – in contemporanea con il progetto un’Europa più Difesa a firma Mogherini – che il processo di militarizzazione della dimensione esterna subisce un’accelerazione. I capi di stato europei riuniti a Parigi rilanciano la struttura del G5Sahel – con un budget di 250 milioni di euro – investendola di una nuova missione: la lotta al traffico dei migranti attraverso il blocco delle partenze e dei transiti verso la Libia. È la seconda struttura della regione, dopo EucapSahel che, teoricamente preposta alla lotta al terrorismo in una delle regioni più instabili dell’Africa, vede le sue mansioni allargate anche all’immigrazione. Fermare le migrazioni è diventata la priorità anche per le missioni della Csdp (Politica di difesa per la sicurezza comune) in corso in Mali e in Niger, mentre singoli stati membri come la Francia e l’Italia hanno cominciato a schierare truppe in Libia e in Niger.
Non solo l’Europa, ma anche i singoli stati membri investono i loro eserciti del ruolo di controllori dei confini. Nel caso italiano, con il voto delle missioni militari italiane all’estero del febbraio 2018, per la prima volta più della metà del budget totale è finalizzato al contrasto delle migrazioni. Si spostano quindi mezzi militari dalle regioni di conflitto in cui l’Italia è da tempo impegnata – Afghanistan e Iraq – per dirottarle sul fronte della politica di esternalizzazione. L’interesse, soprattutto italiano, di essere presenti militarmente nel continente africano è duplice: la questione dei migranti, certo, ma forse ancora di più il controllo di un territorio, quello del Sahel, che dal punto di vista geostrategico diventa sempre più interessante, soprattutto se in concorrenza con la Francia.
È cosi che Agadez – terra di transito dei migranti e cuore del Sahel – diventa uno dei territori con la più ampia densità militare: tedeschi, francesi, britannici, americani. Ma gli italiani, che avevano già approvato il finanziamento per 400 uomini a Madama con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di missione, sembrano non essere i benvenuti. Concorrenze interne europee, sicuramente, così come tensioni nel governo nigerino da parte di chi non sta gradendo questa apertura del paese alle potenze militari occidentali. Bazoum, il ministro nigerino, è molto chiaro con i rappresentanti delle istituzioni europee e degli stati membri che sfilano nel suo ufficio per trattare sui migranti: quello che gli interessa sono i mezzi militari .
L’influenza dell’industria della sicurezza
Se l’influenza della lobby dell’industria della sicurezza è evidente nella politica militare e della difesa europea, questa sembra anche spingere le politiche d’immigrazione verso un approccio securitario e militare. Particolarmente attiva in questo campo l’Organizzazione europea per la sicurezza (Eos), che comprende le grandi industrie europee come Thales, Finmeccanica e Airbus.
Come ben dimostra il recente rapporto del Transnational Institut, Espandendo la Fortezza, la crescita della spesa per la sicurezza delle frontiere ha infatti avvantaggiato un’ampia gamma di società, in particolare produttori di armi e società di sicurezza biometrica. Molte delle loro proposte sono poi apparse nell’Agenda Europea sotto forma di decisioni politiche, come la trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency.
In prima linea nell’esportare l’industria della sicurezza c’è la Germania. A seguire la Francia. E in questo settore è attiva anche l’Italia. La cancelliera Merkel ha infatti sostenuto il pericoloso nesso tra sicurezza e sviluppo, giustificando l’aumento di trasferimenti di armi grazie ai fondi per lo sviluppo. Secondo la logica perversa di molti stati europei, l’assioma è “solo dove c’è sicurezza ci può essere sviluppo”, e quindi meno partenze.
A livello italiano il rapporto del Tni rivela un ruolo attivo di InterMarine, i cui mezzi di pattugliamento sono usati sia dalla Guardia costiera libica che dalla polizia rumena di frontiera. La stessa Finmeccanica, oggi Leonardo, dopo l’appalto da 300 milioni di euro per la costruzione di un muro “tecnologico” al confine sud libico, andato in fumo con la caduta di Gheddafi, ha continuato a trattare con la Libia anche negli anni successivi per la costruzione di sistemi di rafforzamento del controllo.
Nell’elenco degli interessati alla militarizzazione crescente del processo di esternalizzazione ci sono anche società semi-pubbliche e organizzazioni internazionali che forniscono consulenza, formazione e gestione di progetti per la sicurezza delle frontiere e identificazione biometrica, e che hanno prosperato in questo contesto. La tecnologizzazione del Registro di stato civile permette sia di espellere più facilmente i migranti dal territorio europeo, sia di aprire un vasto mercato in Africa. Uno dei principali beneficiari – con il budget allo sviluppo del Fondo Fiduciario per l’Africa – resta la francese Civipol.
Il costo umano della militarizzazione della migrazione
Se risulta chiaro chi fa profitti con queste politiche, è evidente anche chi ne subisce le nefaste conseguenze: migranti e popolazioni locali. Militarizzare per controllare. Ma la storia delle migrazioni insegna che la chiusura di una rotta non arresta affatto il fenomeno. Semmai lo sposta su rotte parallele, spesso più pericolose e costose. Fuori dai percorsi conosciuti, i migranti diventano più facile preda dei gruppi di banditi armati che affollano questo scampolo di deserto. Così come un banale problema al motore dei pick-up che li obblighi a fermarsi può trasformarsi in una tragedia.
L’aumento dei controlli a livello di Agadez ha spostato le partenze nel nord del Mali, verso Gao, portando alla situazione paradossale di arricchire con il business del trasporto di esseri umani, quelle reti all’origine delle situazioni di instabilità della regione.
Sembra però che a Bruxelles non interessi sapere in quali mani si stiano mettendo queste armi. La stragrande maggioranza dei 35 paesi a cui la Ue dà priorità negli sforzi di esternalizzazione delle frontiere hanno regimi autoritari, noti per le violazioni dei diritti umani e con indicatori di sviluppo umano deficitari. È ovvio che per molti armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Quale impatto può avere un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana sulla base di un accordo con il nostro dipartimento di sicurezza? È una domanda che alla luce della deriva autoritaria del governo egiziano sorge spontanea. Una deriva che il nostro paese sembra negare quando si tratta di migranti e interessi economici.
Da non sottovalutare anche l’effetto indiretto di questa militarizzazione, di cui il Sudan è un esempio lampante. Il dittatore Al Bashir, sul quale pendono gravissime accuse, sta potenziando il suo sistema militare di controllo delle frontiere, avvalendosi di membri della milizia JanJaweed riconvertiti nei Rapid Support Forces, proprio in nome di questa collaborazione con la Ue. Al dittatore sudanese il concetto è chiaro: più si militarizzano le proprie frontiere e si bloccano i profughi, meglio si è accolti alla corte europea.
La militarizzazione inoltre rafforza un’idea già propria dell’esternalizzazione: subappaltare per rendere invisibili, lontano dagli occhi degli elettori europei, le conseguenze delle proprie politiche. Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri paesi. Farlo con gli eserciti permette di garantire una più sicura cortina di silenzio, per questo ancora più necessaria da scalfire.
Sara Prestianni è coordinatrice del progetto “Externalisation Policies Watch” per Arci
In copertina: Mali, segni del recente conflitto, 2013 (foto: Sara Prestianni)