Alle nove e mezza di sera la fila davanti alla porta non è ancora finita. Stasera si fanno le vaccinazioni antinfluenzali, e le persone aspettano, una alla volta, che la dottoressa chiami per l’iniezione. Ma non siamo in un normale ambulatorio: è la stanzetta al piano terra di uno dei palazzi occupati più grandi e longevi della capitale, ex sede della facoltà di Lettere e filosofia dell’università Tor Vergata. Fra gli stabili, i centri commerciali della Romanina e il Grande raccordo anulare, da oltre dieci anni il Selam Palace, il palazzo della “pace” in amarico, è la casa di centinaia di rifugiati, richiedenti asilo, migranti transitanti o lungo-soggiornanti. Qui ogni giovedì un gruppo di volontari dell’associazione Cittadini del mondo allestisce un presidio medico/sociale. Donatella D’Angelo, la dottoressa e presidente dell’associazione, fa le visite mediche e le ricette; Marianna, i mediatori culturali Kibrom e Nour e tutti gli altri volontari si occupano di seguire le persone per tutte le necessità, non solo sanitarie. È l’unico spazio di assistenza in questo luogo lontano dal centro della città e trascurato dalle istituzioni.
La storia del Selam Palace è quella di tanti altri spazi occupati a Roma: emblema di un sistema che si ripropone negli anni, uguale a se stesso e senza soluzioni. L’occupazione nasce dallo sgombero nel 2006 di un altro storico edificio, noto come l’Hotel Africa: le oltre 400 persone che ci vivevano, trovatesi per strada, si divisero in gruppi; alcuni andarono al centro di via Scorticabove a San Basilio, altri 250, quasi tutti eritrei, arrivarono qui. Furono subito risgomberati, ma le proteste per il trasferimento in un tendone adibito a centro di accoglienza furono così forti che l’amministrazione si piegò a lasciar sistemare le persone negli ultimi due piani dello stabile. Le altre parti furono murate. Il Comune riuscì ad avviare anche un dialogo per spostare i rifugiati nei centri di accoglienza, ma quando arrivarono i pullman per il trasferimento, i rifugiati si incatenarono al cancello del palazzo. Fu la fine della trattativa.
Nell’infermeria del Selam Palace
La prima volta che entrai al Selam Palace, nel 2007, l’amministrazione aveva appena dichiarato l’occupazione illegale: da allora molte cose sono cambiate, la presenza degli occupanti si è stabilizzata e il palazzo si è lentamente deteriorato. Ci sono infiltrazioni d’acqua dappertutto, muri e piloni corrosi. Quello che resta sempre uguale è che queste persone non hanno un’alternativa. Qui sono alloggiati anche 60 degli ex occupanti di via Curtatone. Proprio come è successo dopo lo sgombero di altre occupazioni (Hotel Africa, Ponte Mammolo, via Vannina) anche nel caso di piazza Indipendenza le persone si sono spostate in altri stabili occupati in periferia, dove le sacche di marginalità sono più consistenti ma meno visibili.
Il numero preciso degli occupanti non si conosce, ma oscilla sempre intorno ai 600/800 e in alcuni periodi supera i mille. Sono in maggioranza eritrei, somali, etiopi – e quasi tutti titolari di protezione internazionale. Ci sono anche diverse famiglie con bambini, come dimostra la fila di passeggini sistemati nel sottoscala. E lavoratori stagionali che vanno e vengono dalle regioni del Sud a seconda dei periodi della raccolta. “Non sono irregolari né migranti economici”, spiega D’Angelo, “hanno tutti un titolo per rimanere. È quello che spieghiamo anche alle istituzioni, per evitare che qui ci sia una seconda piazza Indipendenza”.
Come per tutte le altre occupazioni di Roma, anche qui si teme che prima o poi arrivino i blindati, anche se – dicono in molti – qui non siamo in centro, e questo non è “il palazzo gioiello” di via Curtatone. Gli interessi economici su questo immobile, di proprietà Enasarco e in stato di abbandono, sono molto inferiori. “Le minacce di sgombero ci sono, ma per ora non è successo. Anche perché qui vivono persone che sono in Italia da dieci anni e hanno passato parte della vita qui. Sarebbe una situazione difficile da gestire”, aggiunge D’Angelo. “La realtà è che alla base manca un progetto personalizzato di integrazione: tra queste persone c’è chi pur essendo nel nostro paese da molto tempo non parla italiano, e questo è assurdo. Vanno integrati”.
Anche per questo i volontari dell’associazione Cittadini del Mondo stanno portando avanti il progetto di ampliamento della Biblioteca interculturale, da loro gestita dal 2008 in una scuola, dove verranno anche fatti corsi d’italiano. “Qui c’è una violazione continua dei diritti. Dopo anni, soltanto ora siamo riusciti a far prendere agli occupanti la residenza fittizia in questo municipio. Prima avevano tutti la residenza fittizia a via Giolitti, a via Dandolo e a via degli Astalli, nel centro di Roma”, spiega la dottoressa, “questo ha fatto sì che per anni fossero delle presenze invisibili nel quartiere. La residenza serve per accedere ai servizi sociali, dal consultorio alla Asl, fino all’asilo nido o al dipartimento di salute mentale. Senza, in questo municipio loro non esistono”. Grazie a un dialogo con l’amministrazione, solo da maggio a oggi le residenze ottenute sono state 150, spiega Donatella.
Mentre parliamo, Tirse, una donna di origine eritrea, lamenta un forte dolore al ginocchio, che è visibilmente gonfio: alla fine la dottoressa D’Angelo riesce a capire che ha una scheggia conficcata dentro. In quattro anni di visite non glielo aveva mai detto. “Di schegge ne vedo moltissime, dappertutto. Le persone vengono da zone di guerra e portano i segni del loro passato sul corpo, ma spesso non me lo dicono, anche perché non riescono a esprimersi bene”, aggiunge. “Il problema più grande è quando stanno male; per me è complicato capire i loro sintomi, i mediatori mi aiutano ma è un lavoro difficile”. D’Angelo riceve i pazienti anche nel suo studio di medicina generale su via Tuscolana. La chiamano la “dottoressa degli stranieri”. Chi la detesta dice invece che è il “medico dei negri”. “Vengo qui da sempre con l’idea che queste persone prima o poi verranno integrate e potranno farsi visitare nel mio studio”, dice, “ma per ora il percorso è difficile e ancora lontano”.
L’occupazione di via Collatina
Anche nell’occupazione di via Collatina, nel quadrante est di Roma, vivono centinaia di rifugiati, in maggioranza eritrei. E anche qui hanno trovato ricovero almeno 50 degli sgomberati da via Curtatone. All’ingresso Martina ci viene incontro con la sua bicicletta rosa: dieci anni e sguardo vigile, ci accompagna nel giro al primo piano. Lo stabile è stato occupato nel 2004, dopo lo sgombero di un altro edificio: al piano terra c’è un mini market e una sala ricreativa. Un prefabbricato all’ingresso è adibito a bottega di barbiere. Ma i pochi rifugiati presenti non hanno voglia di parlare con i giornalisti. Il rischio sgombero si sente anche qui, e nessuno si fida. L’occupazione è autogestita, e sono poche le associazioni che vengono a portare assistenza. Per la comunità di Sant’Egidio questa, come altre nella capitale, è un’occupazione di povertà. “Si tratta di famiglie, per la maggior parte di eritrei riconosciuti come rifugiati, che vivono in una condizione di precarietà e di indigenza. Se potessero accederebbero a un alloggio o a una casa popolare, ma la situazione è da anni bloccata, quindi vivono qui”, spiega Francesca Orlando, responsabile della Scuola della pace di Sant’Egidio a Tor Sapienza. Nella scuola i volontari dell’organizzazione seguono alcuni dei bambini presenti nello stabile occupato: “una volta alla settimana li aiutiamo a studiare e a fare i compiti, nella nostra sede. Coinvolgiamo tutti: stranieri, italiani e rom. Molti di questi bambini sono nati qui. Seguiamo anche le loro famiglie, con cui si crea un rapporto che non è mai puramente assistenziale”.
L’occupazione di viale del Policlinico
Askali, eritrea, arrivata in Italia nel 1974, a fare domanda per una casa popolare ci ha provato. “Avevo due bambini piccoli ed ero sola, con il punteggio c’ero quasi, ma poi la graduatoria si è bloccata”, racconta. “Vivevo in affitto con i miei figli e lavoravo come domestica. Quando il padrone di casa ha messo in vendita l’immobile, per un periodo ho vissuto in affitto, poi non ce l’ho fatta più e sono andata in occupazione”. Lo stabile dove oggi vive Askali si trova su viale del Policlinico, vicino all’ospedale Umberto I. Qui si sono stabilizzate in otto anni famiglie provenienti da vari paesi. I gruppi più numerosi sono quelli formati da eritrei e marocchini, ma ci sono anche persone che vengono dai paesi dell’Est.
Il figlio di Askali, Samuel, ha 31 anni, e la doppia cittadinanza italiana ed eritrea. Per due anni è stato mandato dalla madre a fare il servizio militare a Sawa, un centro di addestramento vicino Asmara. “È stato terribile, piangevo tutti i giorni, non conoscevo nessuno, avevo paura di non riuscire a tornare”, racconta lui, “per il fatto che sono per metà italiano avevo la rassicurazione che il mio sarebbe stato un servizio militare a tempo. Ma ho visto persone lì in una condizione pessima: malati, padri di famiglia che non potevano tornare a casa. E ho capito che le persone vanno via dall’Eritrea per disperazione”. Samuel spiega che all’interno del palazzo gli eritrei hanno posizioni diverse sul regime di Afewerki: le persone più anziane non criticano fino in fondo il dittatore, e i più giovani, come lui, sono su posizioni radicalmente opposte.
Sulle scale alcuni bambini giocano a rincorrersi. Hikmet, anche lei proveniente dall’Eritrea, mi accoglie nella sua casa. Una stanza di pochi metri quadri dove c’è tutto: il divano letto, l’armadio, il frigorifero, il tavolo per mangiare. Le pareti sono tappezzate da simboli religiosi: la foto votiva di San Michele, il lume di Padre Pio, l’immagine di Papa Giovanni Paolo II. “Se ci mandano via dove andiamo? Io vado a dormire lì, davanti a quella Madonnina”, dice indicando dalla finestra l’edicola votiva che sorge sul lato opposto della strada. Hikmet e la sua amica, anche lei eritrea, pregano ogni giorno, dicono, perché le voci sempre più insistenti di uno sgombero siano smentite. E per ora sembra che qualcuno li abbia ascoltati, almeno dal municipio. Il palazzo, infatti, non sarà evacuato nell’immediato.
Secondo una sentenza del Tar, che ha accolto il ricorso della società proprietaria dell’immobile, l’amministrazione capitolina avrebbe dovuto procedere entro il 21 novembre, data in cui scadevano i 120 giorni indicati dal Tribunale amministrativo. Ma il processo si è bloccato, per ora, dopo che attraverso un’intermediazione del municipio è stata condotta prima una perizia sullo stato di sicurezza dell’edificio e poi un censimento sul numero degli occupanti: 45 famiglie, circa 120 persone, alcune in situazione di precarità sanitaria, e 30 bambini. Intanto il 23 ottobre scorso il comune di Roma ha indetto una gara d’appalto per “strutture di accoglienza temporanea, articolata in moduli abitativi, anche prefabbricati, preferibilmente in contesti diffusi nel territorio cittadino o in un unico complesso, per ospitare massimo 100 persone”. Nella delibera si fa riferimento alla circolare Minniti in cui il ministero dell’Interno ha messo nero su bianco l’impossibilità di compiere sgomberi in mancanza di soluzioni alternative, chiedendo un’attenzione particolare ai soggetti vulnerabili. “La tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale – si legge nella delibera – è condizione prioritaria per la “definizione delle modalità di esecuzione delle operazioni di sgombero”. Le strutture temporanee di accoglienza potranno ospitare, dunque, famiglie “in gravissime condizioni di fragilità ed eccezionalmente singoli, che sono prevalentemente in situazione di emergenza e in condizioni di grave vulnerabilità sociale e/o sottoposti a sgomberi”.
Una gestione condivisa è possibile a Roma?
“Le persone che vivono nelle grandi occupazioni nei contesti urbani sono il risultato di alcuni gap nel sistema asilo che evidenziamo da anni”, sottolinea Andrea De Bonis, responsabile dell’Ufficio protezione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. “Da tempo mancano misure di assistenza idonee. Oggi solo chi entra nel sistema Sprar ha sei mesi di accoglienza anche nel periodo post riconoscimento, ma nella maggioranza dei casi le persone escono dai centri senza strumenti per l’inclusione. Ora il Viminale ha presentato un piano per l’integrazione su cui abbiamo espresso apprezzamento e a cui abbiamo contribuito, e che prevede anche l’investimento di alcune risorse”.
Nel caso specifico di Roma, De Bonis sottolinea che anche per l’Unhcr è “difficile aprire una riflessione sul problema casa e sul tema delle occupazioni dei rifugiati”, perché si inserisce nell’emergenza abitativa più generale della capitale, non solo per gli stranieri. L’Unhcr in queste settimane ha incontrato la sindaca Virginia Raggi e l’assessora Laura Baldassarre nella speranza che anche a Roma sia possibile realizzare una cabina di regia come a Torino, dove è in corso il trasferimento degli occupanti dell’Ex-Moi. “Lì tutto si sta svolgendo senza tensioni perché c’è stato un negoziato nei mesi precedenti”, aggiunge De Bonis. “Sono coinvolti il comune, la regione, la città metropolitana, la prefettura, le diocesi e la società civile. È questo, per noi, un modello di gestione condivisa”.
In copertina: Selam Palace (foto di Federica Mameli, come tutte le fotografie di questo articolo)