La malaccoglienza in Italia
Lo chiamano Big Box, ma per gli abitanti della zona è lo scatolone. È una palestra di basket costruita in lamiera, con gli spalti arrugginiti, i canestri e gli spogliatoi. Per centinaia di minori stranieri soli (MSNA, nel gergo legislativo), questa struttura comunale a pochi metri dallo stadio Oreste Granillo a Reggio Calabria, è la loro casa. Da più di tre mesi, i minorenni in fuga dal Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, Nuova Guinea, Senegal, Bangladesh sono bloccati in questo centro di primissima accoglienza. Dormono su brandine, al freddo con le poche coperte distribuite da alcuni volontari, tutti anziani, aspettando di essere trasferiti in altre strutture. I bagni sono due e le docce tre per centouno persone: “Non è degno per un essere umano vivere così”, afferma Bengis*, diciassette anni dal Senegal, che ci fa da guida all’interno della palestra. Mentre ci accompagna, altri ragazzi sono chinati a lavare a mano i loro indumenti in piccoli secchi e recipienti improvvisati. Indossano ciabatte, infradito e vestiti leggeri nonostante il freddo. Ibrahim, un ragazzo di sedici anni del Gambia, s’interroga: “Quando ci sarà il primo morto a causa del freddo, di chi sarà la responsabilità? Siamo abbandonati e non sappiamo cosa fare”. Anche gli altri ragazzi che si avvicinano non smettono di fare domande. Mamadou, diciassette anni dal Senegal, aggiunge: “Siamo parcheggiati qui, riceviamo solo cibo e basta. Non andiamo neanche a scuola d’italiano”, esclama. “Abbiamo chiesto delle scarpe più pesanti e guarda cosa ci hanno dato. Secondo te, queste, sono scarpe per il freddo?”, domanda con un tono di rabbia e rassegnazione, mentre stringe tra le mani un paio di sandali.
Per facilitare la convivenza ed evitare discussioni, i minori si sono organizzati, suddividendosi la palestra, secondo il paese di provenienza; in fondo vicino ai bagni ci sono i bengalesi, accanto agli spalti i gambiani, più a destra, invece, i nigeriani di religione cristiana mentre dall’altra parte vi è un gruppo di maliani e di ghaniani. Hanno persino arrangiato una moschea, stendendo sul campo da basket delle coperte e dei cartoni, per pregare. Bivaccano e trascorrono la maggior parte del loro tempo senza fare nulla; c’è chi esce e recupera del materiale nei cassonetti o nell’immondizia; c’è chi ripara biciclette scassate; qualcuno sfoglia un libro d’italiano distribuito da Save The Children agli sbarchi; altri giocano a carte su una stufetta elettrica recuperata chissà dove. Un ragazzo afferra tra le mani un peluche a forma di tigre di colore viola che appoggia sotto il suo lettino dopo averlo accarezzato. Il loro armadio è così: una cassetta di frutta con pochi averi, riposta sotto le brandine blu marchiate Ministero dell’Interno.
Sherif, quindici anni, proveniente dal Camerun, racconta: “Non avrei mai immaginato che l’Europa fosse così; non posso chiamare la mia famiglia, né lavorare. Non abbiamo soldi. Non abbiamo niente e non sappiamo neanche dove siamo. Ci hanno detto di stare qui e di non andare da nessuna parte. Cosa dovremmo fare?”, chiede perentorio.
Le giornate di questi ragazzi sono cadenzate solo dalla distribuzione dei pasti fatte dai volontari in pensione dell’Associazione Nazionale dei Carabinieri. La Mamma, il Nonno e Carmelo – così come sono stati soprannominati – si recano tutti i giorni allo Scatolone dal 2 agosto scorso, per consegnare la colazione, il pranzo e la cena: un kit di pasti confezionati, uguale per tutti gli altri minori stranieri soli a Reggio Calabria, fornito dal bar Bart che si è aggiudicato l’appalto della Prefettura. Non è prevista la scolarizzazione, né altre attività per questi ragazzi poiché si tratta di un centro di primissima accoglienza.
Lo scatolone non è l’unico centro per minori stranieri non accompagnati. A Reggio Calabria, ci sono circa 1800 minori nella stessa situazione. Sono pochi quelli che risiedono in case e strutture dignitose, ma la maggior parte vive in condizioni disumane e squallide, all’interno di palestre, edifici cadenti, ex università o teatri mai inaugurati, privi di elettricità e riscaldamento. È il caso dell’ex sede di giurisprudenza nel quartiere Archi di Reggio Calabria, posta sotto sequestro dalla Procura ma che, ancora oggi, ospita un centinaio di minori in attesa di trasferimento; oppure il teatro a Rosalì dove più di settanta ragazzi vivono ammassati da mesi in un unico stanzone in condizioni igieniche sanitarie precarie. Anche vicino al porto, presso l’edificio della Capitaneria dovrebbero esserci circa settanta minori ma in questa struttura ci è stato negato l’accesso.
I centri – Archi, Rosalì e Capitaneria – sono gestiti dallo stesso l’ente: la cooperativa “Cooperazione sud per l’Europa”, responsabile di altri centri nella regione, a cui è stata affidata la gestione diretta dal comune di Reggio Calabria alla fine dell’estate. Anche il direttore Giuseppe Cosmano ammette: “Effettivamente questi non sono spazi idonei dove manca l’elettricità e ci sono problematiche sanitarie e di conseguenza è difficile organizzare le attività”.
Il ricordo traumatico della Libia
Nelle strutture visitate, i minori stranieri non accompagnati arrivano principalmente dall’Africa Occidentale e un piccolo gruppo dal Bangladesh, ma tutti hanno attraversato il Mediterraneo, partendo dalla Libia, dopo essere stati esposti a numerosi tipi di violenze, abusi e traumi. Rossana Ianni, una delle volontarie, racconta: “Questi sono ragazzi che avrebbero bisogno di una psicologa per ciò che hanno vissuto. Alcuni sono arrivati con segni di percosse, altri con cicatrici e bruciature, per non parlare di chi è stato ferito in testa con una tavoletta di legno con i chiodi. Hanno, comunque, subìto un forte stress psicologico e avrebbero diritto e bisogno di una casa decente”, spiega la donna con schiettezza.
Le voci raccolte di questi giovani descrivono la Libia come un inferno, come un luogo “folle e pericoloso”. Altri usano l’aggettivo “indescrivibile” per la violenza e gli orrori vissuti. Un ragazzo gambiano di nome Muaffak lo descrive così: “Se sei nero, rischi che ti sparino o di essere rapito. Se ti va bene, ti mettono in una specie di prigione, ti obbligano a chiamare la famiglia per pagare un riscatto. Se la tua famiglia non paga, ti lasciano lì oppure ti rivendono a qualcun altro. Non sai quando potrai tornare ad essere libero”. Gli si chiede se sono terroristi dell’Isis. “No, sono libici, bande di pazzi che vogliono solo fare soldi sulla nostra pelle”, chiarisce.
Emmanuel, un ragazzo cristiano della Nigeria, racconta la sua esperienza: “Gli arabi minacciavano di uccidermi perché non sapevo parlare la loro lingua. Ti giuro su Dio – prosegue, baciando la croce che ha al collo – se avessi potuto, sarei ritornato indietro ma non potevo perché c’è il deserto, così sono venuto in Italia. Loro ti spingono sulla barca fino a quando non è piena. Spingono, spingono, spingono. È la cosa più facile ma se ti lamenti ti sparano e ti uccidono”.
Per Rojan Ahmed, diciassette anni del Bangladesh, la Libia è stata un incubo e l’italia, una meta non programmata. “Ero andato [in Libia] per lavorare, la mia è una famiglia povera”, dice a voce flebile, “ma nel ristorante non mi pagavano e mi picchiavano. Tutti andavano in giro con armi, ti fermavano e ti chiedevano soldi e se non ce li avevi, ti torturavano. Siamo stati obbligati a imbarcarci da Sabrata ma non abbiamo pagato”.
Anche Kamara, diciassette anni dal Gambia, descrive la Libia come un posto “senza regole, dove tutti hanno le armi e anche i bambini sparano”. Lui è partito da Sabrata ma prima ha lavorato cinque mesi a Tripoli. “Non mi pagavano, mi picchiavano con dei bastoni e mi prendevano il poco che avevo, mi hanno rubato anche il telefono ma sono riuscito a nascondere questi dieci dinari”, racconta mentre svela il nascondiglio vicino alla cerniera dei pantaloni.
Centinaia sono le storie di questo tipo. Come si legge nel rapporto “Detained and Dehumanised” sulla violazione dei diritti umani dei migranti in Libia, realizzato dal United Nations Support Mission in Libya, “in Libia, i migranti sono sottoposti a detenzioni arbitrarie, torture, uccisioni, sfruttamento sessuale e un’altra miriade di violazioni dei diritti umani. I migranti sono anche sfruttati per i lavori forzati e subiscono estorsioni da contrabbandieri, trafficanti così come da membri delle istituzioni statali”.
Dalle interviste rilasciate sembra che il business sia proprio la tratta degli esseri umani. I ragazzi raccontano le stesse dinamiche: i sequestri, la richiesta di riscatto, i mancati pagamenti e il riempimento dei gommoni, per farne entrare altri da Agades, un girone dell’inferno in Niger. Se prima molti giovani si fermavano in Libia per lavorare anche diversi anni, oggi, a causa delle condizioni e delle minacce alla vita, preferiscono partire o sono costretti a farlo; moltissime sono le testimonianze in cui raccontano che sono letteralmente spinti sui barconi. I numeri sono agghiaccianti: dal 1 gennaio al 22 novembre 2016, 168.542 migranti sono arrivati in Italia dalla Libia e 4.164 sono i morti certi in mare. “Dopo aver attraversato il Senegal, il Mali, il Niger, esser passato da Agades, un posto terribile, il deserto, la Libia, avrei preferito morire in mare piuttosto che restare in Libia”, precisa Kamara.
*I nomi dei minori sono stati cambiati.
FOTO DI COPERTINA: Lo scatolone – Reggio Calabria, Italia. L’esterno dello scatolone, struttura comunale a pochi metri dallo stadio Oreste Granillo a Reggio Calabria. Tutte le foto nell’articolo oto di Arianna Pagani.