Sulla strada che conduce da Tunisi a Bizerte, Ouirtami intona un canto d’amore. Parla di una donna sensuale come una cerbiatta e della passione che un uomo, partito per una meta sconosciuta, prova per lei. “In Tunisia ci sono molti brani sulla migrazione”, spiega con un sorriso malinconico, “perché sono tanti quelli che sono partiti e che non sono più tornati”.
Il marito di Ouirtami è partito per l’Italia il 29 marzo 2011 insieme ad altri cinque uomini da Sidi Mansour, una piccola città nel governatorato di Sfax, uno dei punti più vicini a Lampedusa, a soli centottanta chilometri dall’isola siciliana. Una distanza impercettibile per chi sognava l’Europa, respirava l’aria della rivoluzione, desiderava un lavoro migliore e una vita diversa. Da quel giorno Ouirtami non ha più avuto notizie.
“Siamo poveri”, dice senza alcun pietismo, “mio marito voleva trovare un lavoro e guadagnare più soldi per i nostri figli, perché anche loro vogliono le scarpe di marca, il telefonino e tutte le cose che voi giovani cercate”, afferma, con un tono di rimprovero verso queste pretese della gioventù moderna.
Il 17 dicembre 2010, l’immolazione del venditore ambulante Mohamed Bouazizi, in segno di protesta contro la confisca dei suoi prodotti da parte della polizia, innesca una catena di manifestazioni in tutta la Tunisia. La rivoluzione porta alla caduta del regime di Ben Alì il 14 gennaio 2011. Durante la rivoluzione e le proteste, brutalmente represse dalla polizia, migliaia di tunisini hanno intrapreso il viaggio verso l’Europa. Secondo le stime del Migration Policy Centre elaborati con i dati del Ministero degli Interni, circa 29.685 tunisini sarebbero giunti via mare in Italia solo nel 2011 e 35.000 per il periodo 2011 e 2012. Di questo numero, più di cinquecento sono le persone scomparse.
Nomi non numeri
Nabil, Walid, Wissem, Hamza, Ghassem, Samah, Housemdine sono solo alcuni dei cinquecentoquattro ragazzi dispersi. La maggior parte delle madri non ha avuto nessuna notizia, altre hanno riconosciuto i figli in alcuni video apparsi nei telegiornali e nelle foto sui quotidiani, ma tutte oggi chiedono la verità.
“Se è morto io l’accetto, è la volontà di Dio, ma la cosa fondamentale è sapere cos’è successo. Non vogliamo niente, né soldi, né aiuti, solo la verità”, ripete con voce ostinata, Souad Rouahi, seduta nella camera del figlio Ghassen. “Ci dicano dove sono i nostri figli. Con la tecnologia di oggi si può sapere se i nostri figli sono vivi o morti”, ribadisce con fermezza.
Nel salotto della sua casa ci sono altre due madri, Faouzia e Jamila. Insieme hanno preparato il cous cous e altre prelibatezze tunisine. Nonostante la tragedia che le ha unite si percepisce complicità e affetto dai loro sguardi. I loro figli sono partiti insieme il 29 aprile 2011 e da allora sono scomparsi.
In questi sei anni le donne e le famiglie tunisine si sono unite, hanno protestato numerose volte davanti all’ambasciata italiana e davanti al Ministero degli Affari Sociali, dell’Interno e hanno fondato diverse associazioni: Association pour la recherche des disparus et encadrement des prisonniers tunisiens a l’etranger), La Terre pour Tous (La terra per tutti) Mères des disparus (Madri degli scomparsi). Hanno raccolto informazioni, dati, impronte e realizzato un dossier con i nomi di tutti gli scomparsi.
Alcune delle organizzazioni come Terre pour Tous e Ardepte hanno preso contatti e lavorato con alcune associazioni italiane ed europee come la Carovana Migranti, il gruppo delle Venticinque Undici e Libera, l’associazione nomi e numeri contro le mafie, fondata da don Ciotti. Insieme hanno intrapreso un’iniziativa denominata “Memoria mediterranea”, che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della memoria, sulla necessità di dare un nome alle vittime del Mediterraneo e sul fenomeno della tratta degli esseri umani.
“È un dolore enorme non avere un corpo da piangere. Vediamo i nostri figli solo su queste foto”, dice Faouzia, avvicinando al petto la fotografia del figlio Hamza. “La vorrei bruciare questa frontiera perché questo meccanismo dei visti è un meccanismo di morte che obbliga i nostri figli a viaggiare con barche di fortuna”, conclude la donna.
Un movimento che rivendica il diritto alla memoria
È la prima volta che un movimento di donne e di famiglie dall’altra parte del Mediterraneo si organizza e rivendica un diritto, il diritto di sapere dove sono i figli dispersi. “Questo movimento fa parte della rivoluzione ed è al tempo stesso una rivoluzione perché chiede all’Europa di rendere conto”, spiega a Open Migration, Federica Sossi, professoressa all’università di Bergamo ed esperta di migrazioni e di memoria. “Da una parte c’è l’Europa che spende capitali per la sicurezza e il controllo del mediterraneo, c’è un sistema tecnologico e mille occhi che producono un sapere per non far passare le persone. Dall’altra parte, c’è un movimento che rivendica questo sapere per conoscere dove sono i loro cari”.
Da Bizerte al villaggio di El Aliyah, il paesaggio cambia. La città lascia spazio a distese di uliveti ed a prati verdeggianti e rigogliosi. I sentieri sterrati sono occupati da muli che trasportano frasche e carciofi appena raccolti. Accanto a un piccolo falò quasi spento sono sedute due donne di rara e antica bellezza. Hanno le mani ruvide dalla fatica della terra e i visi affettuosi e benevoli.
“Sono la madre di Housemdine Jilili, scomparso il 5 maggio 2011. Due giorni dopo era il suo compleanno e avrebbe compiuto diciannove anni”, ricorda la donna. “Tutto quello che chiedo, è di avere della compassione e di aiutarci a sapere dove sono i nostri figli. Se mio figlio è morto, almeno mi dicano che è morto perché la mia anima si possa calmare e trovare pace”.
Il figlio di Ftiah aveva studiato, lavorava e aveva una vita dignitosa in Tunisia ma sognava di viaggiare e di visitare l’Europa. Come altri milioni di persone che, a causa della nazionalità del proprio passaporto, non possono esercitare il diritto alla libera circolazione. Viaggiare, dunque, è un privilegio per pochi e senza altra possibilità, l’unica soluzione è di affidarsi alla rete dei trafficanti.
Lo ricorda bene Imed Soltani, fondatore dell’associazione Terre pour tous (La terra per tutti) impegnata nella lotta di queste famiglie: “Quando tu non hai i mezzi legali per viaggiare ed è quasi impossibile ottenere un visto, l’unica alternativa è quella di rivolgerti ai trafficanti ma il passeur – lo smuggler – è il prodotto del sistema e del protezionismo delle frontiere che causa questa domanda di illegalità. I governi dunque hanno il dovere di investigare e di dire alle famiglie cosa è successo ai loro cari”.
Lo scorso 23 febbraio la commissione d’inchiesta creata in Tunisia due anni fa, ha incontrato il Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, Vittorio Piscitelli. Dopo sei anni si sono accordati per la creazione di una commissione tecnica e scientifica mista, incaricata di comparare le informazioni raccolte dai servizi italiani e tunisini con quelle della banca dati italiani. Le famiglie, tuttavia, dicono di non essere soddisfatte perché nessuno dei familiari, né i loro avvocati hanno potuto partecipare all’incontro.
“Non accusiamo l’Italia. Accusiamo l’Unione Europea e i governi che hanno chiuso le frontiere e chiediamo loro di indagare. Chiediamo una commissione bilaterale con i nostri avvocati e rappresentanti che investighi. Chiediamo che sia fatta la riesumazione dei cadaveri senza nome a Lampedusa e che sia dato un nome alle persone sepolte nella vostra terra”, conclude Souad.
Foto di copertina: Bizerte 2017. Saliah, sorella di Ben Ibrahim, disperso dal 29 Aprile 2011. Tutte le foto nell’articolo sono di Arianna Pagani.