“Durante i servizi tecnici di intercettazione sono state registrate precise conversazioni durante le quali l’indagato ha pianificato per alcuni mesi di cessare l’illecita attività criminale condotta e soprattutto di allontanarsi dalla Libia verosimilmente per andare in Svezia, nazione dove è dimorante sua moglie Tesfu Lidya, fra l’altro in stato di gravidanza in quel periodo”.
Questo è uno stralcio della requisitoria del 4 luglio 2016 con la quale i sostituti procuratori Calogero “Gery” Ferrara e Claudio Camilleri hanno chiesto (e ottenuto) il rinvio a giudizio di 14 persone. Tra loro ci sono Abdul Razak, Ermias Ghermay, Wedi Issack e soprattutto Medhanie Yedhego Mered. Sono i quattro trafficanti di uomini che dalla Libia, a partire dal 2013, hanno spedito migliaia di migranti a morire nel Mediterraneo, compresi i 368 annegati o dispersi a Lampedusa il 3 ottobre del 2013.
L’imputato a cui si fa riferimento è proprio Mered, soprannominato il Generale, che i procuratori di Palermo pensano di aver arrestato l’8 giugno del 2016. Abbiamo già raccontato, però, che diverse prove fanno pensare che in carcere ci sia la persona sbagliata.
Tanto che finora, il dibattimento è stato incentrato proprio sul riconoscimento dell’identità dell’imputato, nonostante siano passati quasi due anni dall’arresto. Con assoluta certezza è stato stabilito che il ragazzo in carcere si chiama Medhanie Tesfamariam Behre e che è figlio di una donna di 59 anni, Meaza Zerai Weldai. Secondo la procura si tratta di un alias del trafficante, ma secondo l’avvocato difensore Michele Calantropo è l’unica identità del detenuto, che dice di essere un falegname.
Il test del Dna di Raei Yehdego Mered
L’ultima prova che l’avvocato Calantropo ha prodotto a difesa del suo assistito è un test del Dna del figlio che Lidya Tesfu aspettava. Il bambino si chiama Raei Yehdego Mered, presumibilmente figlio del trafficante Medhanie Yedhego Mered.
A fine marzo Calantropo è volato in Svezia insieme al suo consulente Gregorio Seidita, esperto di genetica dell’Università di Palermo. Sono andati a Eskilstuna, a 120 chilometri da Stoccolma, una cittadina di 70 mila anime che ha una consistente popolazione eritrea, e dove ha sede una delle principali associazioni della diaspora eritrea. Soprattutto, è il luogo dove abitano la moglie di Mered e suo figlio. “Erano due anni che aspettavo che Lidya Tesfu accettasse di sottoporre se stessa e il bambino alla prova del Dna. La ragazza è sempre stata molto titubante, dovevamo partire subito”, spiega l’avvocato. Il test del Dna si è svolto confrontando i dati ricavati dalla saliva del bambino e della madre con quelli dell’uomo in carcere.
Il risultato, secondo la perizia della difesa, esclude in modo categorico che l’uomo in carcere possa essere il padre del bambino. “Se avessi aspettato la Corte d’assise per avere le somme necessarie per il viaggio, come avvocato in gratuito patrocinio, avrei rischiato di perdere quest’occasione, invece questa prova era troppo importante”, aggiunge Calantropo.
Le compagne di Mered sui social
Due giorni dopo essere stato portato al carcere Pagliarelli di Palermo, durante il primo interrogatorio in Italia, Medhanie Tesfamariam Behre, l’uomo che i pm credono sia il Generale, aveva dichiarato di non aver mai conosciuto Lidya Tesfu. Non ha nemmeno mai avuto una moglie o un figlio; lo ha confermato, durante l’udienza del 19 marzo, anche la sorella di Behre, Hiwet Tesfamarian Behrei. I due hanno lo stesso padre, per quanto, come spesso capita nelle famiglie allargate eritree, abbiano madri diverse. Vivevano comunque come un unico nucleo familiare.
Lidya Tesfu è una ragazza di Asmara del 1993, mamma dal 2014. Ha 12 anni meno di Medhanie Yedhego Mered. In una foto sul suo profilo Facebook, la si vede vicino al marito, entrambi vestiti a festa, e la differenza d’età è molto evidente. Lei guarda in basso, stretta in un abito viola acceso, luccicante. Medhanie Yedhego, al suo fianco, è agghindato con un’ampia cravatta dello stesso verde acqua del gilet. Sui social non ci sono altre foto che li ritraggono insieme. Però dalle stesse conversazioni registrate dagli investigatori sembra che il rapporto tra i due sia sempre stato forte, tanto da far pensare a Mered di smettere con i traffici, almeno temporaneamente, per andare in Svezia a vedere suo figlio per la prima volta.
L’immagine dei due è stata caricata su Facebook il 20 dicembre 2014 come commento a un’altra foto, con due tazze, con una dedica di Lidya Tesfu: “For my beloved”. Un’altra immagine significativa, esplicitamente dedicata al marito, ritrae una coppia di amanti che si baciano e un commento: “ahahah, questo è per Meda”. Tutte queste fotografie sono state caricate sui social nell’arco di 48 ore.
Il bambino, il piccolo Raei, potrebbe però non essere l’unico figlio del Generale. Sempre sul suo profilo, Lidya Tesfu tra il 20 e 25 marzo 2013 aveva condiviso l’immagine di una bambina che viene dal profilo di un’altra giovane eritrea: Semhar Yeman, classe 1989. Il sospetto è che questa donna sia la Semhar che i procuratori indicano come compagna di un certo Medhane nel decreto di fermo disposto l’11 maggio dal Gip di Palermo. In quell’occasione non era stato identificato chi fosse “Medhane”, ma l’ipotesi più accreditata è che sia Medhanie Yedhego Mered, imputato nel processo.
Sempre secondo la procura, Semhar Yeman avrebbe avuto una figlia insieme a Mered. La bambina nella foto sul profilo di Semhar in un altro scatto caricato sui social nel luglio del 2014 è ritratta in sella a una moto. La stessa identica foto compare quattro giorni dopo sul profilo Facebook meda.yedhego, che secondo la procura appartiene al trafficante Mered. L’ipotesi, quindi, è che la bambina sia figlia della coppia e che Lidya Tesfu l’abbia condivisa sul suo profilo Facebook proprio perché parte della famiglia.
Un ultimo collegamento tra Semhar e Mered si trova in un’intercettazione di giugno 2014 contenuta sempre nel decreto di fermo. Nella trascrizione si legge che Mered si vanta di aver portato in Italia, la settimana precedente, oltre 1.400 persone. In seguito, prosegue la conversazione, sarebbero dovute sbarcare in Italia anche Samhar con la figlia. Non si hanno più avute notizie della ragazza, che ha aggiornato la propria pagina l’ultima volta nel 2016. Si sa solo che quando la conversazione è stata intercettata, la donna e la bambina stavano in Israele.
I dubbi di Meron Estefanos
“Ci dovrebbero essere due processi separati, uno per stabilire le responsabilità di Mered, uno per stabilire l’identità dell’arrestato. Invece tengono tutto insieme: questo processo è assurdo”, ci dice Meron Estefanos, giornalista e attivista eritrea che vive in Svezia. Contattata a febbraio 2015 dallo stesso Medhanie Yedhego Mered, è stata sentita come teste il 22 gennaio di quest’anno. Durante la sua trasmissione alla radio in Svezia, molto popolare fra gli eritrei della diaspora, Estefanos aveva ospitato le testimonianze di intere famiglie che denunciavano torture e stupri subiti dai propri cari, vittime di Mered, che all’epoca trafficava esseri umani in Israele. L’uomo aveva contattato Estefanos perché voleva un’intervista per rispondere alle accuse. A quella telefonata ne sono seguite altre, fra cui una in cui il trafficante diceva alla giornalista – che voleva incontrarlo per un documentario – che avrebbe lasciato la Libia in direzione Sudan. La telefonata è avvenuta fra l’8 e il 10 giugno 2015.
Estefanos durante le sue ricerche è entrata in contatto con Mered (anche se mai di persona) e ne ha denunciato i traffici. Sempre attraverso il suo lavoro ha conosciuto anche gli altri della “cupola” dei trafficanti individuata dall’indagine palermitana Glauco. “Non capisco perché nel processo colleghino Mered al naufragio di Lampedusa. Era Ermias Ghermay il proprietario di quella barca, non Mered”, dice.
L’impianto accusatorio di tutta l’indagine si sviluppa dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, di cui l’indagine Glauco – poi diventata Glauco I, II e III – cerca i colpevoli. “Le indagini”, si legge nella requisitoria che ha portato ai rinvii a giudizio per la seconda e la terza fase, “hanno dimostrato che il sodalizio criminale capeggiato da ERMIAS [Ghermay] e MERED Medhanie Yehdego in Nord Africa” è stato protagonista di “attività criminali” almeno fino al 2015.
Vista la sua conoscenza del fenomeno, i report di Estefanos sono stati utilizzati da varie forze dell’ordine europee, in particolare in Svezia e Olanda, paesi che collaborano con l’Italia in questa inchiesta. Durante la sua testimonianza di gennaio, il pm Gery Ferrara ha messo però in dubbio la credibilità della teste, sostenendo che nel suo racconto delle telefonate con Mered c’erano alcune anomalie nella linea temporale. Intanto Estefanos continua il suo lavoro e di recente ha collaborato con la tv pubblica svedese SVT per rintracciare il trafficante di uomini. Le indagini hanno condotto lei e il collega Ali Fegan in Uganda, dove alcune fonti sostengono che il bar Molober di Kampala sia spesso frequentato dal trafficante. Probabile però che l’uomo si scappato altrove, vista l’attenzione sul paese africano.
Le autorità ugandesi non hanno finora svolto alcuna indagine sulla permanenza di Mered in Uganda, in attesa di una rogatoria italiana. Però il giornale locale Observer ha stabilito che Mered in Uganda si sarebbe fatto un nuovo passaporto, a nome Habte Amanuel, grazie a una tangente e ad alcune entrature nell’ufficio visti locale.
La TV svedese ci ha anche confermato di essere in possesso di un ulteriore file in cui una forza di polizia europea rivela di essere pronta ad arrestare il vero trafficante, ma che per farlo sarebbe necessario un nuovo mandato d’arresto spiccato dalla procura italiana, che però tace (la notizia è stata data anche dal Guardian).
L’appello inascoltato della comunità eritrea
A gennaio 2018, Elsa Chyrum, dissidente politica eritrea che abita in Gran Bretagna da oltre vent’anni e che ha fondato l’organizzazione Human Rights Concern-Eritrea, ha scritto una lettera aperta ai ministri Minniti e Orlando per chiedere il rilascio di Medhanie Tesfamarian Behre, che ritiene del tutto innocente. Visto il pantano giudiziario, ha provato a fare pressione sulle istituzioni. Tentativo vano: “non abbiamo mai ricevuto risposta”, ci ha scritto in una mail a febbraio.
“Nessuno può essere certo al 100 per cento del motivo per cui Behre venga tenuto in carcere, tuttavia appare chiaro che il suo arresto e la sua detenzione siano un fallimento colossale e un imbarazzo a livello internazionale per gli organi inquirenti”, prosegue.
E dobbiamo infatti ricordare che le conseguenze del processo Mered vanno molto oltre i muri del Palazzo di Giustizia di Palermo. L’inchiesta Glauco ha avuto un importante supporto da Sophia, l’operazione condotta dalle Marine militari europee per fermare i trafficanti, e si è valsa della collaborazione di Gran Bretagna, Paesi Bassi e Svezia. Un suo fallimento rischia di mettere in discussione l’intero sistema anti-trafficanti europeo.
Per adesso, i risultati della missione Sophia sui vertici della catena di trafficanti che opera in Libia si limitano all’arresto del presunto Mered, definito per questo dal Ministero dell’Interno italiano “l’arresto dell’anno”. La missione è stata rinnovata fino alla fine del 2018, ma con un mandato che si va allargando: il 14 maggio la Commissione europea ha stabilito che ora dovrà occuparsi anche di “implementare la raccolta e la trasmissione di informazioni per implementare l’embargo Onu alla fornitura di armamenti in Libia” e di “condurre attività per raccogliere informazioni sull’esportazione illegale di petrolio”. Questa riformulazione del mandato sembra indicare un ripensamento della missione: dati gli scarsi risultati della lotta al traffico di esseri umani e la poca attenzione rivolta al traffico di greggio e di gasolio, meglio imprimere una nuova direzione a Sophia in modo che possa intercettare le navi in mare, a prescindere dall’operazione illecita di cui sono sospettate. Il contributo di Sophia nell’indagine Mered è stato invece a terra, con un’operazione di intelligence sulla rete del trafficante. I risultati sono quelli che si vedono. Il lavoro in mare è più semplice e dà risultati migliori, almeno sul piano numerico: i presunti trafficanti fermati da Sophia sono 145, di cui la maggior parte ancora deve affrontare un processo per accertare le effettive responsabilità penali.