In molti paesi del mondo, essere Lgbti – lesbica, gay, bisessuale, transgender e/o intersessuale – vuol dire essere soggetti a intimidazioni, persecuzioni, violenze fisiche e psicologiche. Come abbiamo visto nei pezzi precedenti di questa serie dedicata ai rifugiati Lgbti, a commettere questi soprusi sono agenti statali, di solito la polizia, o proprio le persone vicine alle minoranze sessuali e di genere come la comunità e la stessa famiglia.
Molte persone Lgbti decidono così di lasciare il paese d’origine alla ricerca di una vita più sicura. Alcuni di questi cercano rifugio nei paesi dell’Unione Europea, dove ottenere protezione internazionale può essere però complicato. Nel primo articolo di questa serie vi raccontavamo come non esista una linea comune nella gestione dei casi specifici alle minoranze sessuali e di genere. Pur avendo riconosciuto orientamento sessuale e identità di genere come motivi validi per ottenere la protezione internazionale (Art. 10, Direttiva Qualifiche), il Common European Asylum System non è ancora stato sufficiente a stabilire standard e pratiche comuni. Il risultato è che chiedere asilo in quanto gay, lesbica, bisessuale, transgender o intersessuale spesso espone a discriminazioni e pregiudizi nuovi e tutti europei.
“Potresti nascondere la tua omosessualità? Allora torna a casa”
Alla luce del numero di stati in cui essere omosessuale è un reato (72 secondo i dati ILGA) e/o è diffusa l’omo-transfobia, non sorprende che in molte aree l’omosessualità o una identità di genere non conforme siano percepiti come qualcosa da nascondere. Essere dichiaratamente Lgbti può significare pestaggi, stupri, matrimoni forzati, emarginazione, torture e uccisioni. In alcuni paesi, nascondere la propria identità Lgbti può salvare la vita, anche se non potrà mai essere una vita piena.
Uno degli ostacoli maggiori sulla strada della protezione internazionale è il cosiddetto “requisito della discrezione”, cioè la convinzione che il richiedente asilo, tornato nel proprio paese d’origine, sarebbe al sicuro se nascondesse il proprio orientamento sessuale e/o identità di genere. Una vera e propria pretesa, sia essa implicita o esplicita, che fa ricadere sulla vittima la responsabilità di eventuali nuove persecuzioni, che sarebbero evitabili celando la propria identità.
Una pratica paradossale, che però negli ultimi anni è stata adottata nella maggior parte dei paesi europei. Stando al report Fleeing Homophobia, nel 2011 almeno 17 stati europei utilizzavano il requisito della discrezione – fra questi Francia, Germania, Spagna, Norvegia, Polonia, Danimarca e Irlanda. Questa pratica assume varie forme. La più diffusa è traducibile in un “torna nel tuo paese e nasconditi”. In Francia, al contrario, vi sono stati casi in cui il requisito della discrezione è stato applicato al contrario: la paura fondata di persecuzione esiste solo se la persona ha svelato il proprio orientamento sessuale e/o identità di genere nel proprio paese d’origine, altrimenti non c’è ragione di pensare che sussista un effettivo pericolo. Le autorità francesi, insomma, hanno negato lo status di rifugiato a coloro che non avevano fatto coming out prima di scappare, anche se per salvarsi la vita.
Non sorprende la quasi unanime condanna di questa pratica da parte di attivisti, organizzazioni governative, non governative e di attivisti. Su questa questione, l’Unhcr ha preso una posizione netta fin dal primo documento ufficiale sul tema sui rifugiati Lgbti del 2008: “così come una domanda basata su un’opinione politica o sulla nazionalità non verrebbe respinta perché il richiedente poteva evitare il danno previsto cambiando o nascondendo le proprie opinioni o identità, allo stesso modo richieste basate su orientamento sessuale e identità di genere non dovrebbero essere respinte meramente su queste basi”.
Posizione poi che l’Unhcr ha confermato nelle linee guida del 2012. Nel 2013 si è pronunciata anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sottolineando che, all’interno del Common European Asylum System, ai richiedenti asilo omosessuali non venga richiesto in alcun modo di nascondere una parte così fondamentale della propria identità. Una presa di posizione, quella della Corte, che come sottolineato dall’Agenzia Europea per i diritti umani (Fra) ha portato diversi stati europei a cambiare condotta. Peccato che questo non sia ancora sufficiente a creare una solida prassi comune.
Pretendere che un richiedente asilo rinunci a vivere il proprio orientamento sessuale e/o la propria identità di genere è a tutti gli effetti contrario ai fondamenti delle norme europee e internazionali sui rifugiati e sui diritti umani. Questa pretesa fa emergere stereotipi e sottolinea la scarsa consapevolezza dei problemi specifici dei richiedenti asilo Lgbti.
“Sei proprio lesbica?”- la questione della veridicità
Una questione sempre più centrale è quella della credibilità della persona che chiede asilo. In generale, valutare la credibilità di un richiedente consiste, tra le altre cose, nel determinare se gli eventi da questi descritti sono accaduti, qual è il motivo alla base della paura di persecuzioni future e cosa accadrebbe se questi tornasse nel proprio paese d’origine. Quando si parla di persone Lgbti, tuttavia, la vera domanda è una: la persona è davvero lesbica, gay, bisessuale, transgender e/o intersessuale? Su questo fronte, all’interno dell’Unione Europea emergono problemi distinti.
Prima di tutto, nei diversi stati europei vengono utilizzati criteri molto diversi per stabilire l’orientamento sessuale e l’identità di genere di un richiedente asilo. Anzi, la valutazione della credibilità è probabilmente la questione su cui gli stati europei hanno le prassi più distanti. L’approccio ottimale è quello suggerito dall’Unhcr, secondo cui “l’autoidentificarsi come Lgbt andrebbe preso come un’indicazione dell’orientamento sessuale dell’individuo” (è questo il caso dell’Italia). Al contrario, alcuni paesi europei si basano su esami medici e consultazioni con psichiatri, psicologi e sessuologi (per citarne alcuni: Austria, Germania, Polonia, Ungheria). Il caso più inquietante è quello della Repubblica Ceca, dove fino al 2009 si utilizzava il cosiddetto “test fallometrico”. La pratica, accertata dalla stessa Fra e descritta nel dettaglio dall’organizzazione non-governativa ORAM, consisteva nel forzare richiedenti asilo Lgbti ad assistere a proiezioni di scene pornografiche per valutare le reazioni fisiologiche – la presenza o meno di un’erezione – per determinare l’orientamento sessuale. Diverse Ong, inclusa ILGA-Europe, hanno accertato almeno un altro caso di questa procedura in Slovenia nel non lontano 2012.
Oggi, le persone Lgbti più esposte a test medici sono le persone transgender e intersessuali. Spesso queste persone sono già in contatto con i medici. In ogni caso, secondo l’Unhcr anche nei casi in cui non è stato intrapreso alcun intervento o trattamento medico per avvicinare l’aspetto della persona al genere in cui questa si identifica, non la si può considerare una prova di non credibilità.
In generale, i referti medici (inclusi quelli psichiatrici) sono un metodo inadeguato per stabilire l’orientamento sessuale e l’identità di genere di una persona. Va ricordato che nel 1990 l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (Oms) ha eliminato l’omosessualità dall’elenco delle malattie. Per quanto riguarda le identità di genere, sebbene l’Oms includa ancora il transessualismo tra i disturbi dell’identità di genere, la quasi totalità delle organizzazioni Lgbti chiedono a gran voce la depsichiachiatrizzazione. Insomma, l’orientamento sessuale e l’identità di genere fanno parte della consapevolezza di sé, dell’identità di una persona, e se gli esami medici non hanno uno scopo legittimo, possono diventare una chiara violazione della privacy del richiedente asilo.
Alla luce di questo, non sorprende poi che in vari stati Ue si facciano domande esplicite sulla vita sessuale per stabilire la credibilità del richiedente asilo. Come riportato nel rapporto Fleeing Homophobia, in Belgio ci sono stati casi di persone a cui è stato chiesto quando avessero toccato dei genitali per la prima volta e quando fosse stata compiuta una fellatio. Una realtà simile a quella irlandese, in cui ad alcuni richiedenti asilo Lgbti è stato chiesto di fornire informazioni sul numero di partner avuti e sulla frequenza dei rapporti.
Decisioni sull’asilo basate su stereotipi
Le decisioni in materia di protezione internazionale nell’Unione Europea sono spesso basate su stereotipi e aspettative sulle persone Lgbti, sui loro comportamenti e sulle loro abitudini. Aspetto, linguaggio del corpo e aspettative su come le minoranze sessuali e di genere vivono ed esprimono le proprie emozioni giocano un ruolo fondamentale nelle interviste per l’esame della richiesta di asilo.
Non sono pochi i casi in cui l’aspettativa era che i richiedenti asilo Lgbti avessero familiarità con la scena Lgbti e con personaggi dello show business riconosciuti come “icone gay” (come Cher, George Michael, Britney Spears). La studiosa Claire Bennett ha esaminato questo atteggiamento nel Regno Unito, raccontando il caso di una richiedente asilo giamaicana respinta perché il suo aspetto, secondo l’intervistatore, non era abbastanza “da lesbica”. In un altro caso, a una richiedente asilo ugandese è stato chiesto il suo grado di familiarità con lo scrittore Oscar Wilde – evidentemente, secondo l’intervistatore, un segno di riconoscimento per le persone Lgbti. Come testimoniato da Maibaa, richiedente asilo zimbabwese, nel report No Safe Refuge: “è così che funziona: ‘quanto sei lesbica? Frequenti club gay? Frequenti altre lesbiche? Quante lesbiche possono scrivere una lettera per te per confermare che sei lesbica? E di queste lesbiche, quante sono state accettate dal Ministero dell’Interno o sono cittadine britanniche?”
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in proposito nel 2014, stabilendo che l’autoidentificazione (suggerita dall’Unhcr) sia solo il punto di partenza di una procedura che deve prendere in considerazione circostanze specifiche e personali evitando però domande stereotipate, ricerca di informazioni sulla vita sessuale, test invasivi e la produzione di prove video sulla vita sessuale del richiedente asilo.
Nonostante questa presa di posizione, le cattive pratiche sono ancora presenti in molti paesi europei. Non sorprende quindi che nel 2016 ILGA-Europe abbia aggiunto alla lista delle attuali sfide legate ai richiedenti asilo Lgbti nell’Unione Europea la “tendenza a rifiuti basati sulla non-credibilità dell’orientamento sessuale e identità di genere, spesso sulla base di stereotipi”. E non sorprende neppure che la Corte di Giustizia europea si sia dovuta pronunciare daccapo in materia in una recentissima decisione del 25 gennaio 2018, con cui ha stabilito che utilizzare test psicologici per dimostrare l’orientamento sessuale di un richiedente asilo (e respingere un caso solo su questa base) sia assolutamente incompatibile con le norme europee.
Infine, secondo l’accademica Jenni Millbank, quando il requisito della discrezione viene abolito, l’attenzione di chi giudica i casi tende a focalizzarsi sul fatto che il richiedente asilo sia o meno Lgbti. Insomma, la richiesta di discrezione, gli stereotipi, le aspettative su cosa voglia dire far parte di una minoranza sessuale e di genere sembrano essere facce della stessa medaglia. Queste pratiche denotano una spiccata ignoranza sulle distinte identità Lgbti e sul cosa comporti essere Lgbti in paesi in cui l’identità sessuale può provocare persecuzioni.
La pratica della discrezione e i problemi legati alla credibilità assumono un carattere ancora più inaccettabile se si pensa al progetto originale – quello del Common European Asylum System – e al numero di dichiarazioni, trattati internazionali e regionali sulla tutela e protezione dei diritti umani che tutti gli stati membri hanno sottoscritto o ratificato. In un report del febbraio 2016, lo stesso Parlamento europeo ha evidenziato le difficili condizioni dei richiedenti asilo Lgbti e sottolineato la necessità di nuove procedure che combattano stereotipi dannosi. E a due anni di distanza, poco è cambiato.
In copertina: San Valentino di SOS Racisme a Parigi (fotografia di Philippe Leroyer, licenza CC BY-NC-ND 2.0)