La sera prima del tramonto, dopo il lavoro, Usman Alì raggiunge un piccolo caffè a poca distanza dallo stadio intitolato a Nejib Khattab, cronista sportivo della radio e della tv tunisina degli anni Ottanta e Novanta, lungo la strada che da Tataouine porta a Ben Gardane.
Oltre al muro che circonda il campo da calcio, dalla sala del caffè si vede una distesa di sabbia sterminata, e lo sguardo di Usman si perde nel vuoto, aspettando che cali il sole.
“Ho girato tutta la Tunisia da Sud a Nord, credo di essere stato in ogni città almeno una volta da quando sono arrivato qui – racconta mentre si accende una sigaretta – in realtà negli ultimi anni ho attraversato l’intero Nord Africa, e non sono ancora riuscito a passare dall’altra parte.”
Questo ragazzo alto ed esile, vestito di nero, si definisce un “veterano” della Tunisia, perché a differenza della maggior parte dei giovani subsahariani che si trovano nelle città del Sud, a pochi chilometri dalla Libia, è qui stabilmente da due anni, anche se il suo viaggio è cominciato nel 2018.
“Ho fatto qualunque lavoro per andare avanti – dice – il muratore, il contadino, il venditore ambulante al mercato, tutto quello che capita, e grazie a Dio riesco a sopravvivere.”
Usman arriva da Al-Jazīrah, regione del Sudan a sud di Khartoum, che ha lasciato alla fine del 2018.
Quell’anno, nel mese di dicembre, nel suo paese scoppiano una serie di proteste contro l’aumento dei prezzi dei beni alimentari, e nel gennaio del 2019, diverse organizzazioni civili e politiche si riuniscono nelle Forze della libertà e del cambiamento, un comitato che coordinerà la resistenza fino alla destituzione del governo di Omar al-Bashir nel marzo successivo, a seguito di un nuovo colpo di stato dell’esercito sudanese.
Come è cominciato il tuo viaggio, nel 2018?
Cinque anni fa ho pensato di intraprendere l’avventura verso l’Europa, avevo 27 anni. Sono andato in Libia con l’idea di cominciare a lavorare lì e mettere da parte un po’ di soldi per il resto del viaggio. Mi sono imbarcato per l’Italia ma siamo stati intercettati e riportati indietro, così sono finito nel posto peggiore al mondo, Beni Walid, e sfido chiunque a smentirmi, non c’è un luogo più terribile.
Sono stato detenuto tre mesi, ci torturavano con la corrente elettrica, ci terrorizzavano sparando colpi di pistola e fingendo che stessero per giustiziarci. Mi obbligavano a contattare la mia famiglia per chiedere denaro, dicevano che solo così avrebbero smesso. I miei fratelli sono riusciti a mettere insieme 3 mila euro per farmi uscire da quell’incubo, e allora sono stato finalmente rilasciato.
Cosa hai fatto dopo il rilascio?
Mi sono spostato sulla costa, cercando lavoro nelle diverse città e avvicinandomi sempre di più al confine con la Tunisia. Arrivato a Zuwara mi sono fermato, in attesa dell’occasione giusta per attraversare la frontiera. Dopo qualche mese ho trovato un passeur che per 50 dollari mi ha accompagnato. Era un libico, in un’ora e mezza ero in Tunisia.
Cosa è successo dopo il passaggio di frontiera?
La Guardia Nazionale tunisina mi ha arrestato, ma durante la detenzione sono stato rispettato, non come in Libia. Mi hanno dato da mangiare e da bere, hanno solo applicato la legge che per il passaggio illegale di frontiera prevede 16 giorni di carcere. Quando sono stato scarcerato, mi hanno anche rilasciato un documento di soggiorno. Era il 2019, ci davano 150 dinari al mese come sostegno, poi 200. Dopo due anni hanno eliminato il sussidio, e mi è stato anche rifiutato il rinnovo dei documenti.
Cosa hai deciso di fare, ritrovandoti nuovamente in una posizione da “irregolare”?
Ho deciso di lasciare la Tunisia e di andare in Algeria. Il mio obiettivo era sempre quello di arrivare in Europa, e ho pensato che forse dal Marocco alla Spagna sarebbe stato più facile. Ci sono voluti tre mesi per attraversare il territorio algerino, abbiamo sofferto molto nel deserto.
In Marocco sono stato in carcere tre volte, tante quante ho cercato di entrare a Melilla. Anche qui in prigione non ho subito torture, ma quando sono stato liberato l’ultima volta sono rimasto per un mese in mezzo alla strada, alla fame, senza potermi lavare o cambiare. Così ho deciso di tornare in Algeria, e poi da lì in Tunisia: da allora sono qui, circa due anni, ormai sono un anziano, aiuto gli altri ragazzi appena arrivati perché ho più esperienza. Qui in città sono ben visto pure dai tunisini, riesco a lavorare, anche se non sempre, ma mi arrangio.
Hai abbandonato il sogno di raggiungere l’Europa?
No, voglio ancora arrivare in Europa. Ho sette fratelli in Sudan, e io sono il più piccolo. Devo aiutarli, lavorare per mettere da parte quanto basta per tornare a casa da loro. Il mio obiettivo è questo. Non mi interessa avere i documenti, ho una famiglia che sta soffrendo, ho bisogno di guadagnare in euro, non in dinari, se voglio sottrarla alla miseria. Mi basterebbero dieci anni. Nel mio paese si dice “non si sa da dove si mangia la spalla dell’animale, eppure si mangia”: non so come ci arriverò, ma so che prima o poi attraverserò il mare. Per ora metto da parte i soldi.
Ho già provato cosa significa salire su una di quelle barche, in Libia, e ho fallito. Se succede di nuovo poco male, riproverò una volta in più.
La foto di copertina, Usman Alì, è di Ilaria Romano