Lo scorso 16 novembre gli ultimi due leader ancora in vita del regime dei Khmer Rossi, che già stavano scontando l’ergastolo per crimini contro l’umanità, sono stati dichiarati colpevoli anche di genocidio dal Tribunale speciale internazionale istituito dall’ONU in accordo con il Regno di Cambogia. Nuon Chea, il famigerato “Fratello Numero Due” del dittatore Pol Pot, è stato ritenuto responsabile del genocidio sia a danno della comunità vietnamita che di quella Cham, etnia di religione musulmana. Lo stesso verdetto è stato emesso anche nei confronti dell’ex capo di stato Khieu Samphan, ma solo per quanto riguarda la comunità vietnamita. In aggiunta, entrambi sono stati dichiarati colpevoli anche dei seguenti crimini contro l’umanità: omicidio, sterminio, deportazione, schiavitù, prigionia e tortura di massa.
Nella soddisfazione generale per un verdetto che – almeno da un punto di vista giuridico – ha portato una ventata di giustizia nei confronti di un numero incalcolabile di vittime (compreso tra il milione e mezzo e i tre milioni), c’è chi ancora non se la sente di festeggiare. È il poeta, documentarista e artista cambogiano Rithy Panh, unico sopravvissuto della sua famiglia all’eccidio di un intero popolo protrattosi per quattro anni, dal 1975 al 1979. “Manca dell’altro” dichiarava Panh a JusticeInfo.org poche ore dopo la conclusione di un processo senza fine durato 21 anni, da quando cioè esiste il Tribunale speciale, ma in realtà iniziato già ai tempi della destituzione del sanguinario dittatore, successivamente deceduto nel 1998 e condannato alla pena di morte in absentia in quello che ancora oggi è considerato un processo farsa. “Per me manca ancora una definizione vera e propria del crimine. Sotto il regime non solo non eravamo più cambogiani, ma siamo stati privati del nostro nome, della nostra religione, della nostra cultura, delle nostre famiglie. Ci è stato tolto tutto. A essere messe sotto attacco sono state la nostra identità, la dignità personale. Eravamo nel braccio della morte e lì non sei più nessuno. Ecco perché penso che qui ci si trovi di fronte a qualcosa che va oltre il crimine in sé”.
Da tempo, ormai, Rithy Panh è cittadino francese, ma ciò non significa che abbia superato il trauma del genocidio. “Una vita così – sospira Panh – ti marchia finché muori”. Negli ultimi anni, in particolare con la crisi umanitaria in Africa e Medio Oriente e la massiccia richiesta di asilo nei paesi occidentali da parte delle vittime di guerra e di ogni genere di soprusi, sta diventando sempre più di uso comune il termine “resilienza”. Con esso, si indica la capacità di un individuo, generalmente affetto da sintomi di stress post-traumatico (PTSD), di superare gli effetti a lungo termine provocate da esperienze drammatiche quali, appunto, genocidi e crimini contro l’umanità.
In un recente studio pubblicato dal National Center for Biotechnology Information (NCBI) dal titolo Trauma e rifiuto sociale tra le donne Yazide sopravvissute alla schiavitù e al genocidio (Trauma and perceived social rejection among Yazidi women and girls who survived enslavement and genocide, 2018) è stato riscontrato come, su 416 donne yazide tra i 17 e i 75 anni, di cui 65 sopravvissute a contesti di schiavitù sessuale, l’80% di donne e ragazze, e quasi tutte le vittime di schiavitù sessuale, accusassero sintomi di stess post-traumatico con evidenti segni di depressione, scarsa salute mentale e la generale convinzione di essere state rifiutate dalla società. Questa ricerca è stata poi confrontata con altre situazioni di guerra simili, tra cui i genocidi avvenuti in Rwanda, in Bosnia, in Uganda e in Congo, ottenendo gli stessi risultati, ovvero effetti critici e duraturi tra le vittime sopravvissute.
Uno come Rithy Panh ha iniziato il suo processo di resilienza grazie all’arte, e da che ha realizzato il suo primo documentario non si è più fermato. In tutti i suoi film il cineasta cambogiano si è confrontato con il trauma, personale e collettivo, del genocidio dei Khmer Rossi in un tentativo di riconciliazione individuale che parla non solo ai suoi compagni di sventura scampati, come lui, alla morte, ma anche ai morti e ai posteri. E proprio di questo parla anche il suo ultimo film, Graves without a Name (Les tombeaux sans noms). “Tra vittime” spiegava il regista durante la Mostra del Festival di Venezia dove l’abbiamo incontrato “è diffusa la necessità di definirsi, di capire chi sono, da dove vengano, di ritrovare la propria identità e dignità perdute. Noi che realizziamo film, dipingiamo quadri, scriviamo libri o componiamo musica diamo il nostro contributo per non andare incontro all’annullamento totale”.
Panh, che nel 2006 ha fondato nel suo paese natio il Bophana Audiovisual Resource Center, volto a tenere viva la memoria della Cambogia e a sensibilizzare all’arte e alla creatività le nuove generazioni di cambogiani, è tutto fuorché riconciliato. “La riappacificazione dell’anima non è automatica, altrimenti non urlerei così tanto la notte. A distanza di quarant’anni vedo ancora cose che mi fanno gridare mentre dormo. È la Storia che ritorna, anche se quando ti svegli quasi non ricordi. Ma è una chiamata, qualcosa che è in me. Sono i morti e io parlo con loro”.
È anche di questo che parla Graves without Name, del dialogo necessario e costante tra i sopravvissuti e i loro eredi con chi non ce l’ha fatta, in un percorso di resilienza – forse l’unico davvero possibile – che trascende le singole culture e diventa universale. A proposito di questa condizione Panh usa il termine “violenza estrema”, una forma di violenza che va oltre la dimensione fisica. “A noi sopravvissuti viene chiesto in che modo siamo stati picchiati, come siamo stati torturati, ma mai come ci sentiamo spiritualmente. Le conseguenze di un omicidio non finiscono oggi o domani. Continuano negli anni a venire. Nessuno, però, ti sa spiegare come vivere dopo questa esperienza distruttiva”.
Una simile consapevolezza da parte del cineasta, che non presuppone una guarigione pur evidenziando un miglioramento, trova riscontro nelle teorie di Richard Rechtman, psichiatra e antropologo francese che da oltre vent’anni, a Parigi, lavora a stretto contatto con i rifugiati cambogiani. Rechtman è autore del saggio Il paradosso del sopravvissuto (The Survivor’s Paradox: Psychological Consequences of the Khmer Rouge Rhetoric of Extermination, 2006). In esso sviluppa i concetti fondamentali della “retorica dello sterminio” e del “paradosso del sopravvissuto”. Partendo dagli studi compiuti dall’American Psychiatric Association sui rifugiati cambogiani negli Stati Uniti affetti da sintomi di stress post-traumatico (PTSD), Rechtman spiega come, anche se un superstite può superare un evento drammatico senza una particolare necessità di resilienza, difficilmente sarà in grado di superare il senso della retorica associato alla violenza subita, che privandolo della dignità e dell’identità personali – e quindi della sua condizione umana –, lo pone sullo stesso piano dei morti, annullandolo a livello sociale.
“Ogni crimine è specifico, ma l’esperienza di chi soffre è comune” puntualizza Rithy Panh, ricordando la collega Marceline Loridan, filmmaker francese sopravvissuta all’Olocausto nazista, scomparsa a settembre 2018. “Parlavamo molto di chi siamo noi sopravvissuti. In termini di sofferenza, di traumi subiti, di perdita di sé e dei propri cari, non c’era differenza tra me e Marceline. Lei aveva un numero tatuato sul braccio, io sono zoppo da un piede. Siamo stati marchiati a vita. Era come se lei fosse stata con me nel mio stesso posto e io con lei nel suo”.
Poi riflette sul presente: “Sappiamo tutti come la Storia si ripeta e non colpisca una sola zona del pianeta. Quando sento la retorica di Orban, di Salvini, Duterte, Bolsonaro o di Trump, ho molta paura. Non sono un politico, ma è evidente che stiamo assistendo a un progetto di società. Il loro linguaggio suona proprio come ai tempi del fascismo. Stiamo vivendo in un periodo post-nazista. Alla base della democrazia dovrebbe esserci il prendersi cura dei più deboli. Senza, non può esserci pace. Anziché innalzare muri, creare frontiere, bloccare le navi, dovremmo cercare di capire come vivere assieme, come condividere lo spazio a nostra disposizione e ciò che abbiamo per raggiungere quella che io considero la civiltà”.
Come spiega Rechtman, se è vero che la retorica dello sterminio è in grado di trasformare l’uomo in qualcos’altro che non è un uomo, privandolo sistematicamente della sua condizione umana, tale privazione non solo giustifica il crimine, ma lo annulla, poiché le vittime non sono più assimilabili agli esseri umani. Da qui il paradosso del sopravvissuto, la cui condizione è ormai paragonabile a quella di chi è già morto. In questo senso non c’è differenza tra sopravvissuti e morti perché finiscono per condividere la stessa sorte e sono destinati a scomparire senza lasciare traccia. L’unico modo per evitare l’annullamento dell’identità e la perdita della propria dignità, che l’eredità di uno sterminio di massa o un evento altamente traumatico lascia nei sopravvissuti, avviene attraverso i loro racconti, le loro testimonianze. Attraverso la sofferenza e i sintomi psicologici di cui si fanno custodi, i sopravvissuti possono dialogare perpetuamente con i morti, aiutandoli – e aiutandosi – a rimanere in vita. Anche per queste ragioni ogni richiedente asilo respinto o lasciato in mare è un’opportunità di resilienza mancata.
Immagine di copertina: dalle foto ufficiali di Graves without a Name (come tutte quelle presenti nell’articolo)