1. Le 10 crisi umanitarie che ci aspettano nel 2018
Dallo sterminio dei Rohingya al Sud Sudan, dagli uragani alla fame, il 2017 è stato molto difficile. Ma il 2018 si potrebbe rivelare ancora peggiore: gli editor di IRIN News tracciano uno scenario cupo – e molto realistico – delle crisi umanitarie che segneranno l’anno appena iniziato.
Siria, Congo, Yemen e Venezuela sono solo alcuni dei paesi protagonisti, guerre e cambiamenti climatici solo alcuni dei fattori scatenanti.
Il comune denominatore? Alexandra Bilak, la direttrice dell’International Displacement Monitoring Center sintetizza in un tweet: “1) non sono nuove; 2) potrebbero essere prevenute con volontà politica e investimenti adeguati; 3) continueranno a causare moltissime sofferenze e spostamenti se il punto 2) non viene affrontato”.
2. Nel 2018 si continua a morire di confini
Intanto una di quelle tragedia umanitarie continua ad avvenire sotto i nostri occhi: se nel 2017 sono stati oltre 3.100 i migranti a perdere la vita nel Mediterraneo, c’è già da iniziare la tragica conta per il 2018. La prima tragedia in mare si infatti è consumata all’Epifania: la Guardia Costiera conferma 8 morti (di cui sono stati recuperati e sbarcati a Catania i corpi), la Ong Sea-Watch parla di almeno 25, l’Organizzazione Internazionale Migrazioni (Oim) ne conta 64. Il racconto della BBC e quello di Repubblica (con video in ripresa soggettiva dei soccorritori).
Ed a morire di confine non sono solo coloro che non sopravvivono alla pericolosissima traversata del Mediterraneo. Perchè la tragedia continua anche una volta arrivati in Italia, come testimonia la storia di Ammara Walid, trentenne tunisino che si è impiccato nell’hotspot di Lampedusa – dove si trovava dal 30 ottobre – per la disperazione. Il ricordo e la denuncia di Luigi Manconi su Huffington Post. Da accompagnare al nostro approfondimento sui trattenimenti in Cie e Hotspot e quello dedicato alle ferite invisibile dei migranti.
3. Nel 2018 si continua a criminalizzare la solidarietà
A Nizza si è intanto aperto un altro processo contro la solidarietà. Martine Landry, un attivista di Amnesty International Francia, sarà giudicata in tribunale con l’accusa di “avere facilitato l’entrata di due minori stranieri irregolari (…) avendoli presi in carico e accompagnati dalla frontiera italiana al valico di frontiera francese”. Rischia fino a cinque anni di carcere e un’ammenda di 30.000 euro. L’articolo di Riccardo Noury sul Corriere della Sera, da accompagnare al nostro approfondimento sui reati di solidarietà.
4. “Burned to the ground”: la scala della persecuzione dei Rohingya
Fino allo scorso agosto nell’area di Rathedaung, in Birmania, c’erano 21 villaggi abitati dal popolo Rohingya. A metà settembre ne erano rimasti 5. Gli altri sono bruciati nella violenta persecuzione della minoranza etnica, fatta di uccisioni e stupri di massa, oltre che – appunto – villaggi dati alle fiamme.
“Burned to the ground” è un incredibile lavoro giornalistico realizzato da Reuters Graphics, che mette insieme immagini satellitari, mappe, foto, analisi degli incendi, testimonianze dei sopravvissuti – per dare idea della scala della persecuzione, delle violenze e della distruzione subite dalla minoranza etnica in Myanmar. Le immagini satellitari mostrano ad esempio villaggi in cui l’area Rohingya è completamente distrutta mentre quella buddista rimane intatta.
Si stima che le persone coinvolte dalla persecuzione siano più di 650.000, oggi in fuga verso il Bangladesh (dove Giuliano Battiston ha incontrato alcuni di loro, in un reportage in esclusiva per Open Migration).
5. Niger: i limiti (e le conseguenze) della strategia di “riconversione” dei trafficanti di uomini
Trasformare un’economia che gli europei considerano criminale senza mettere a repentaglio la fragile coesione sociale del Niger: con un budget di soli 8 milioni di euro, il Rapid Impact Economic Action Plan per Agadez (PAIERA) è il programma più piccolo dell’UE ma ha una importanza politica enorme. Un’operazione pilota, con un alto rischio di fallimento: è l’oggetto del reportage di Giacomo Zandonini, che su Refugees Deeply racconta il lavoro dell’Unione Europea nel nord del Niger per “riconvertire” i trafficanti di migranti ad altre attività. Che mostra limiti e solleva domande: stiamo finanziando criminali (come si chiede un funzionario del governo del Niger)? C’è una vera intenzione di cambiare? Ripeteremo errori del passato?
Il programma europeo in Niger ha poi evidentemente conseguenze importanti anche per i migranti, il cui viaggio è ora diventato esponenzialmente più pericoloso. Lo racconta bene il reportage di Sudarsan Raghavan per Washington Post, attraverso la storia del giovane Aziz – che pensava di conoscere i rischi della traversata (morte di sete nel deserto o annegamento nel mare) ma poi ha scoperto di dover fare i conti con un’altra pericolosa incognita.
Già lo scorso dicembre Zandonini scriveva per noi com’è cambiata la vita di un ex passeur di migranti dopo l’applicazione delle misure restrittive da parte del governo – e di come la chiusura della rotta di Agadez abbia spinto la locale economia al dettaglio verso le mani di un sistema mafioso.
6. Migranti schiavi in Libia
L’Unione Europea continua a lavorare con la Guardia Costiera libica per ridurre il numero di sbarchi sulle coste europee. Decidendo di sorvolare sul fatto che coloro che vengono “salvati” in mare dai libici finiscono poi per essere rinchiusi negli infernali centri di detenzione, dove abusi e violenze sono all’ordine del giorno – e molti sono ridotti in schiavitù. Lo racconta il reportage per la BBC di Stephanie Hegarty, da accompagnare al reportage di Sudarsan Raghavan per Washington Post che, da Sabratha, racconta come le guerre tra milizie influenzino i flussi di migranti dalla Libia.
7. “Questo Paese non è sicuro” – ma le deportazioni in Afghanistan non si fermano
Mohammad Elham è tornato da pochi mesi a Kabul, la città che aveva lasciato nel 2010, dopo che i Talebani gli avevano ucciso moglie e figli. E ci è tornato in manette, come molti richiedenti asilo afgani che l’Europa sta rimandando in patria, un paese pericolosissimo dove rischiano la vita quotidianamente.
Forti di un controverso accordo tra l’Unione Europea e il governo afgano (definito “a new low” dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani), i paesi europei continuano ad alzare il tasso dei dinieghi e dei rimpatri. Un esempio per tutti è quello della Germania, che – secondo i dati dell’ECRE – nel 2015 aveva dato asilo a quasi il 75% delle richieste di cittadini afgani e che nel 2017 lo ha concesso a meno della metà.
“Nessuna parte del Paese può essere considerata sicura” scriveva Amnesty International in un rapporto dello scorso ottobre che chiedeva ai governi europei la sospensione delle deportazioni. La bomba vicino all’ambasciata tedesca a Kabul, che lo scorso maggio ha ucciso più di 150 civili, è solo uno degli attacchi mortali che ormai colpiscono l’Afghanistan sempre più spesso – ma questo non sembra fermare i governi europei, spiega Ruchi Kumar su IRIN News.
8. Rifugiati e accoglienza: la fine del sogno tedesco
A distanza di alcuni mesi dalle ultime elezioni, la Germania fa i conti col proprio rapporto con i rifugiati: 500.000 furono accolti nel 2015 con una decisione senza precedenti della cancelliera Merkel. Ma proprio la Merkel fa fatica a formare un governo e deve fare i conti con il successo del partito xenofobo AfD, entrato in parlamento con il 12,6% dei voti, con una campagna che ha fatto leva proprio sul sentimento anti-rifugiati e su quella decisione.
Su The New Statesman Kenneth Rosen spiega che le politiche tedesche oggi vedono una lenta ma sempre maggiore riduzione dei servizi a chi è arrivato nel Paese, parte di un più ampio piano che punta a tagliare sostegno e spingere ad essere indipendenti. Gli effetti rischiano di creare corto circuiti difficili da superare. Un esempio? I corsi di lingua, fondamentali per trovare lavoro e integrarsi – ma quasi mai disponibili gratuitamente (pur essendo stato garantito da una recente legge un miglior accesso). Le nuove iniziative sono poi spesso indirizzate a chi è già a buon punto del processo di integrazione e non a chi ha bisogno di sostegno di base, e sono spesso gestite da volontari, anche loro in diminuzione. Sarà la fine del sogno tedesco per i rifugiati?
9. La distruzione del programma di resettlement americano
È intanto sicuramente finito il sogno americano per i rifugiati. Il 2017 sarà infatti indubbiamente ricordato, tra le altre cose, come l’anno in cui il presidente Trump ha fatto a pezzi il programma di resettlement degli Stati Uniti. Certo, c’è ancora qualche speranza per il futuro (l’ultima parola spetta sempre al Congresso), ma intanto questo anno saranno pochissimi i rifugiati a trovare accoglienza negli Stati Uniti. L’approfondimento di Deborah Hamos per NPR.
10. Ai Weiwei: La libertà di movimento è la più elementare forma di dignità
Il passaporto fa parte dell’identità di una persona, della più elementare forma di dignità che uno stato può e deve dare. Parola di Ai Weiwei, uno degli artisti più famosi al mondo, a cui per anni il governo cinese ha vietato di viaggiare trattenendogli il passaporto. Dopo aver trasformato in arte la propria persecuzione, oggi il cuore della sua attività è la crisi globale dei rifugiati, da lui affrontata anche in un documentario in uscita in questi giorni, “Human Flow”, in contemporanea con la mostra “Good Fences Make Good Neighbors”, che sta per aprire a New York.
Se ci rendiamo conto che queste tragedie sono create da persone, capiamo anche che abbiamo il potere di risolverle: fingere che non abbiano a che fare con noi è però la cosa più tragica, per le persone coinvolte e per il futuro che attende la nostra società, dice Ai Weiwei in una intervista a Reason.
Foto di copertina: una rifugiata Rohingya in Bangladesh – via DFID – UK Department for International Development (CC BY 2.0).