1. How to save many lives – diario di bordo di una missione di soccorso
How to save a life, si chiedevano i The Fray in un successo pop di alcuni anni fa. E come salvarne, invece, centinaia e centinaia? Il diario di bordo, interattivo e multimediale, di Judith Sunderland (la versione in italiano si trova qui) dalla nave Aquarius della Ong Sos Méditerranée racconta di come si salvano – e, troppo spesso, si perdono – vite in mare, e del perché sia cruciale denunciare i costi delle politiche di contenimento europee e trovare vere soluzioni al dramma umanitario che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Da accompagnare alla nostra serie di approfondimenti sulle Ong in mare.
Ecco il mio racconto delle 2 settimane trascorse sull'Aquarius, nave di salvataggio in mare https://t.co/q8mUaV9X2U
— Judith Sunderland (@sunderland_jude) December 2, 2017
2. L’inverno sta arrivando (di nuovo) in Grecia
Arriva il grande freddo e i rifugiati bloccati in Grecia hanno urgente bisogno di strutture di accoglienza adeguate e di elettricità. La situazione nelle isole greche è terribile a dir poco, con Lesbo che viene definita il “ground zero dell’ignominia europea” e la “Guantanamo europea” (rispettivamente nel reportage di Giorgos Christides e Katrin Kuntz per Spiegel e in quello di Jonah Hull per Al Jazeera). Ma com’è possibile che la situazione sia ancora questa, dopo più di due anni dall’inizio della cosiddetta “crisi dei rifugiati”, con tutti i soldi e l’attenzione che sono stati dedicati alla Grecia? Il punto di Solon Ardittis, direttore di Eurasylum, per Refugees Deeply.
3. Alla scoperta della rotta tunisina
Dalla Tunisia si sono imbarcati verso l’Europa più persone negli ultimi mesi che nel corso di 2015 e 2016. Cosa c’è dietro questo aumento delle partenze? L’approfondimento di Matt Herbert e Max Gallien per Refugees Deeply (da accompagnare al nostro reportage).
4. In fuga dal Bangladesh
Negli ultimi due anni si è registrato un vertiginoso aumento dei bengalesi in arrivo sulle coste italiane. Ad oggi, sono la seconda nazionalità più rappresentata negli sbarchi, e tra di loro ci sono tantissimi minori non accompagnati. Perché così tanti, e da cosa scappano? Il reportage di Giacomo Zandonini su Repubblica.
Dalla Libia all'Italia, la nuova vita dei bangladesi che hanno attraversato il Mediterraneo, grazie a #MediaMigrationAward @ICMPD @asgi_it @OIMItalia @rete_sprar https://t.co/RaqoiWDFYU
— giacomo zandonini (@giacomo_zando) November 30, 2017
5. L’esternalizzazione dei confini – all’americana
Abbiamo parlato tante volte della strategia europea e italiana di esternalizzazione delle frontiere, da ultimo con l’accordo con la Libia attraverso cui si è lasciato ai libici “il lavoro sporco” (se così vogliamo definire sistematiche e brutali violazioni dei diritti umani) per impedire ai migranti di partire dall’Africa. Ma ad appaltare la gestione delle proprie frontiere non siamo solo noi: gli Stati Uniti, ad esempio, stanno mettendo in atto la stessa strategia in Messico. Lo “spiegone” di Johnny Harris e Tian Wang per Vox.
6. L’esodo dei ragazzi dell’America Centrale
È un vero e proprio esodo, quello dei ragazzini in fuga dal “Triangolo del Nord” dell’America Centrale. Soli, senza le proprie famiglie, senza nessuna protezione – e disposti a qualsiasi cosa pur di raggiungere gli Stati Uniti e la possibilità di una vita migliore. Cosa c’è dietro questo fenomeno? L’approfondimento di Michael Clemens su War on the Rocks.
7. Cosa resta della Siria, e dei siriani
Una nazione e un popolo a pezzi. Dopo quasi sette anni, il conflitto siriano ha ucciso mezzo milione di persone e costretto alla fuga metà della popolazione: sono infatti più di 5 milioni i siriani in esilio, sparsi per il mondo, spesso in condizioni di estrema precarietà. Come raccontare cosa resta della Siria, dei siriani, della speranza di tornare un giorno a casa? Ci provano Lily Hindi e Sima Ghaddar in un approfondimento per The Century Foundation.
8. L’importanza di chiamare i Rohingya col proprio nome
Dirlo o non dirlo, questo è il dilemma. C’erano grandi aspettative per la visita di Papa Francesco in Birmania e Bangladesh, tutte riguardanti la capacità del pontefice di prendere apertamente posizione sulla questione dei Rohingya. Iniziando col chiamare “la minoranza più perseguitata del mondo” col proprio nome, cosa che gli era stato esplicitamente chiesto di non fare dalla più alta autorità clericale della Birmania. E fino a quando è stato in Birmania, in effetti, Papa Francesco quella parola non l’ha pronunciata (ed è stato perciò molto criticato). Poi però è arrivato in Bangladesh e finalmente ha voluto chiamare i Rohingya col proprio nome – che equivale a una importante presa di posizione. L’articolo di Jason Horowitz per il New York Times sul dilemma del pontefice e il punto di Quartz sull’importanza della parola (e la chiarezza della posizione di Papa Francesco).
9. Non ci sono giustificazioni per Manus Island
Il prezzo inevitabile delle politiche di deterrenza: così l’Australia continua ostinatamente a giustificare l’orrore della detenzione offshore – e quindi quello che sta avvenendo a Manus Island, eloquentemente ribattezzata “la Guantanamo australiana dei rifugiati” e ora definitivamente sgomberata (ma con molte incertezze sul futuro, come spiega Damien Cave sul New York Times. Lo dobbiamo fare per evitare che altri muoiano in mare, sembra essere la motivazione proposta – un’affermazione la cui assurdità è brillantemente messa a nudo dal già condiviso fumetto di First Dog on the Moon. L’editoriale di Ben Doherty e Helen Davidson per il Guardian smonta una volta per tutte questa assurda argomentazione, mettendo a nudo tutto l’orrore e l’autoinganno insito nelle politiche australiane.
Australia's offshore detention regime is a brutal and obscene piece of self-delusion | Helen Davidson and Ben Doherty https://t.co/z573plUAS9
— Guardian Australia (@GuardianAus) November 30, 2017
10. Dalla dichiarazione di New York a oggi: tante parole, e poi?
“Sono convinto che la storia ci giudicherà duramente per la nostra incapacità di reagire di oggi, come già avvenuto in passato – ad esempio, quando respingevamo gli ebrei in fuga dal nazismo” aveva dichiarato Barack Obama, allora Presidente degli Stati Uniti, in occasione del Summit internazionale su rifugiati e migranti del 2016.
In quella occasione, i leader mondiali si erano impegnati – con la dichiarazione di New York – ad adottare specifiche strategie articolate di protezione (i cosiddetti “Compacts”) per i rifugiati, da una parte, e per i migranti, dall’altra (mantenendo dunque comunque una rigida dicotomia tante volte contestata). A distanza di un anno, il Presidente Trump sceglie di abbandonare il dialogo sul Migration Compact. A che punto siamo e che prospettive ci sono per la reale implementazione degli impegni che verranno, forse, messi su carta? L’approfondita analisi di Tania Karas per Irin News e quella di Michael Clemens per Center for Global Development.
Foto via Roman Catholic Archdiocese of Boston (CC BY-ND 2.0).