Mentre in decine di città del Paese una sorta di sciopero generale si è esteso a macchia d’olio per respingere il colpo di Stato che dal 1 febbraio ha restituito il Myanmar all’abbraccio dei militari che ora minacciano un giro di vite, nello Stato orientale del Rakhine aumentano i timori di un segmento impaurito di quel che resta della comunità rohingya.
I Rohingya sono birmani musulmani che parlano una lingua bengalese e che si sono visti togliere la nazionalità, ossia il diritto di cittadinanza che era stato loro riconosciuto nell’allora Birmania indipendente. Nel tempo questa comunità di poco più di un milione di anime si è vista sottrarre sempre più diritti e ha cominciato una lenta migrazione verso Ovest. Sino a che, nel 2012 e poi nel 2017, è stata oggetto di un vero e proprio pogrom diffuso, alimentato da monaci buddisti iper identitari e nazionalisti locali con il benestare di Tatmadaw, l’esercito birmano.
Nel 2017, nell’arco di un mese, 700mila fra loro fuggirono in Bangladesh inseguiti da milizie civili e commando militari: la macchia più scura sugli sgargianti abiti di Aung San Suu Kyi, la cui tolleranza sul pogrom le è costata la condanna internazionale e addirittura il ritiro di premi importanti come il Sakharov. Ma i veri nemici dei Rohingya sono in militari che hanno avallato e favorito l’esodo del 2012 e poi ancora nel 2016 e di nuovo nel 2017, impedendo il ritorno in Myanmar dei profughi. Vittime – secondo alcuni osservatori – di calcoli economici (land grabbing), ipernazionalismo bamar (la comunità birmana storicamente più potente), odio religioso verso l’islam o anche teorie complottiste su infiltrazioni terroristiche dell’islam radicale.
Da allora Tatmadaw ha sostanzialmente sigillato lo Stato del Rakhine, isolandolo persino dai collegamenti internet in una spirale di intimidazione e violenza che, negli ultimi anni, si è arricchita di un nuovo fattore identitario: la presenza militare dell’Arakhan Army, una formazione autonomista arakanese buddista molto ben armata e che ha le sue basi a cavallo tra gli Stati Rakhine e Chin, anch’esso ai ferri corti col governo centrale di Naypyidaw e con Tatmadaw. I Rohingya – se mai hanno potuto – non possono certo nuocere né all’esercito né al governo centrale, in quanto ormai la stragrande maggioranza della comunità forma una diaspora diffusa all’estero e i pochi che restano (circa 600mila) vivono per lo più in campi profughi che Human Rights Watch ha definito “prigioni a cielo aperto”, come abbiamo potuto constatare in un viaggio a Sittwe, la capitale del Rakhine e l’unica città cui è possibile accedere nella zona Nord dello Stato. Circa 80mila rohingya sono stati sfollati in alcuni campi profughi a una decina di chilometri dal centro mentre in città ne sono rimasti 4mila che vivono nell’area musulmana di Sittwe ormai ridotta a un ghetto e i cui ingressi sono controllati dalla polizia. Inutile dire della fine dei templi o delle proprietà dei musulmani: distrutte, confiscate, passate di mano o abbandonate. È andata meglio alla piccolissima comunità musulmana arakanese dei Kaman, anch’essi vittime di pogrom (benché riconosciuti come nazionalità birmana) ma che in parte hanno potuto trasferirsi a Yangon in condizioni meno aberranti.
Il tracollo del governo civile però potrebbe adesso significare completa mano libera alla casta in divisa, qualora dovesse decidere, approfittando della confusione causata dal golpe, di espellere quel che resta di una minoranza completamente abbandonata cui non hanno accesso – se non attraverso personale locale – nemmeno le organizzazioni umanitarie (Onu, Croce Rossa, Ong), cui è vietato verificare, con personale non birmano, le condizioni nei campi profughi. Lo stato dell’Arakhan infine, proprio perché attraversato dalla guerra, ha partecipato solo in misura ridotta alle elezioni del novembre 2020 (in cui la Lega di Aung San Suu Kyi ha stravinto, motivo ufficiale per cui Tatmadaw ha deciso il golpe, contestando il risultato delle urne).
La cosa ha accentuato il risentimento degli arakanesi che, più di altri, si sentono in Myanmar cittadini di serie B. Una situazione esplosiva tra movimenti identitari locali più o meno autonomisti, la pressione dell’Arakhan Army (che attualmente Tatmadaw sta cercando di cooptare con un armistizio) e l’irrisolta questione rohingya, visto che il Myanmar ha firmato un accordo con il Bangladesh per il rientro dei rifugiati che hanno oltrepassato il confine per salvarsi dall’incendio dei villaggi e da stragi ormai comprovate (per le quali il Gambia ha accusato di genocidio il Myanmar alla Corte di giustizia internazionale dell’Onu).
Il paradosso è che nel suo discorso alla nazione del 9 febbraio, il capo della giunta generale Min Aung Hlaing ha detto (pur senza usare il termine rohingya) che il nuovo esecutivo favorirà il ricollocamento dei profughi. Forse per far ricadere ogni colpa su Aung San Suu Kyi o rispondere alla richiesta del Consiglio di sicurezza dell’Onu che, il 6 febbraio, ha chiesto al Myanmar di liberare i prigionieri politici e di garantire un “rimpatrio sicuro, volontario, sostenibile e dignitoso degli sfollati” nello Stato del Rakhine.
Nei sovraffollati campi dei rifugiati in Bangladesh, nelle aree a ridosso del confine con il Myanmar, sono due i sentimenti prevalenti. Il primo è la crescente preoccupazione per la sorte di parenti, famigliari e amici rimasti nello Stato del Rakhine, sui quali potrebbe ulteriormente scaricarsi la violenza di un regime militarista e violento. Le stesse Nazioni Unite hanno dichiarato che temono che “il colpo di Stato aggravi le difficoltà dei circa 600.000 Rohingya musulmani ancora nel Paese”.
L’altro è lo sconforto per una situazione di stallo che rischia di prolungarsi. Nei campi di Cox Bazar aumenta l’incertezza: sotto crescente pressione del governo bangladese, che pone sempre maggiori restrizioni sulla libertà di movimento e di comunicazione, la vita all’interno dei campi è difficile. Il rientro in patria, nello Stato del Rakhine, è un desiderio diffuso, ma altrettanto diffusa è la consapevolezza che non ci siano le condizioni affinché possa essere “sicuro, volontario, sostenibile e dignitoso”, come invocano le Nazioni Unite. E che non lo sarà nell’immediato futuro.
Il 4 febbraio avrebbe dovuto tenersi un incontro, atteso da settimane, del Comitato di lavoro per il rimpatrio, con i rappresentanti dei governi bangladese, birmano e cinese, ma l’incontro è stato posticipato, in attesa che la situazione interna del Mynamar si risolva. L’accordo tripartito, mediato da Pechino, è stato proposto dal governo cinese nel corso dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del settembre 2019, alla luce del fallimento dei precedenti tentativi bilaterali.
Già nel novembre del 2017 il Bangladesh e il Myanmar hanno sottoscritto un Memorandum d’intesa per il rimpatrio dei Rohingya, ma non ha prodotto risultati. Dacca ha inviato a Naypyidaw una lista di 840.000 nomi da verificare e poi rimpatriare, ma dalla Birmania è arrivato il via libera per 42.000, soltanto il 5%. Per due volte, poi, nel novembre 2018 e nell’agosto del 2019, i piani logistici approntati per il rimpatrio di una parte dei Rohingya ospitati nei campi di Cox Bazar non hanno funzionato: nessuno, tra loro, si è fidato.
Ancora meno funzioneranno se nel nuovo governo militare birmano dovesse essere confermata alla guida del ministero del Welfare sociale – che gestisce i rimpatri – Thet Thet Khine, una politica che viene guardata con sospetto per le sue presunte posizioni anti-Rohingya e per aver minimizzato il pogrom dell’estate 2017. Non manca chi critica la postura adottata dalla comunità internazionale, dopo quegli eventi.
Tra i Rohingya della diaspora c’è infatti anche chi lega il colpo di Stato all’incapacità della comunità internazionale di sanzionare adeguatamente e di esercitare sufficienti pressioni sulla giunta militare birmana. La reazione troppo timida al tentato genocidio del 2017 avrebbe rafforzato i militari, convincendoli di avere mano libera e di non dover temere le sanzioni internazionali.
A Dacca, cresce la preoccupazione. Il ministro degli Esteri, Abdul Momen, ha fatto sapere che il governo ha rafforzato il controllo dei confini. “In passato, la nostra gente ha dato il benvenuto ai Rohingya. Ora non possiamo farlo più”. Dacca teme che ci possa essere un’altra fuga dal Myanmar e preme per ristabilire al più presto le relazioni diplomatiche con il nuovo governo, così da tornare a discutere del rimpatrio.
Il ministro Abdul Momen ha ricordato con ottimismo che anche in passato, sia nel 1978 sia nel 1992, sono avvenuti dei rimpatri di profughi Rohingya, dal Bangladesh al Myanmar, proprio sotto un governo militare. “Perché non dovremmo farlo questa volta? Per il Myanmar, è un’opportunità. Dovrebbero avvantaggiarsene”.
A Dacca sanno che lo stallo si prolungherà. Per questo, a dispetto degli appelli delle organizzazioni per i diritti umani, continuano i trasferimenti dei Rohingya dai campi di Cox Bazar a Bhasan char, l’isolotto nel Golfo del Bengala su cui Dacca vorrebbe ricollocare ben 100.000 Rohingya. Isolati da tutto, ben lontani dal confine con il Myanmar.
Immagine di copertina: il campo di Kutupalong (foto: Giuliano Battiston)