Aggiornamento: martedì 27 marzo, il Gip di Catania ha confermato sequestro della nave e inchiesta sull’ipotesi di favoreggiamento dell”immigrazione clandestina, ma ha deciso che l’accusa di associazione a delinquere non sussiste; per questo motivo l’inchiesta è stata tolta al procuratore di Catania Carmelo Zuccaro e le carte sono state trasmesse alla procura di Ragusa, che ne aveva la competenza territoriale fin dall’inizio.
Il decreto di sequestro preventivo di Open Arms (OA), la nave dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms, ricostruisce fatti occorsi fra il 15 e il 18 marzo intorno a un’operazione di salvataggio nel Mediterraneo.
Su questi fatti l’Ong stessa aveva aggiornato in tempo reale sui social media, parlando di “emergenza in acque internazionali”. Il soccorso era stato documentato il 16 marzo anche dalla Guardia Costiera italiana, dal cui resoconto non traspaiono conflitti di alcun tipo.
Dalle carte sappiamo che i crimini contestati sono associazione per delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e che le persone indagate sono il comandante della nave Open Arms e la capomissione a bordo, ma anche (“in concorso con”) il coordinatore generale di ProActiva Open Arms, Gerard Canals, che si trovava a Barcellona durante i fatti. Il provvedimento arriva dalla stessa procura di Catania che l’estate scorsa lanciò le accuse alle Ong che precedettero il sequestro da parte della procura di Trapani della Iuventa, la nave della Ong tedesca Jugend Rettet, sulle cui carte scrivemmo qui e qui.
La prima parte del decreto di sequestro di Open Arms ricostruisce che il 15 marzo, “nelle acque antistanti la costa libica”, gli indagati procedono al soccorso dell'”evento 164″ (un evento Sar è uno o più gommoni in difficoltà). Come annunciato dalla stessa nave spagnola quel giorno, si tratta del salvataggio di 218 persone.
Questo salvataggio, dice il magistrato, avviene nonostante il Maritime Rescue Center italiano a Roma (Imrcc), a cui di solito compete il coordinamento delle navi di soccorso, abbia segnalato agli spagnoli che a dirigere le operazioni era stavolta la Guardia Costiera libica, che si sarebbe dunque occupata del soccorso. Si dice che la Guardia costiera libica aveva chiesto “esplicitamente e per iscritto di non volere nessuno nella zona teatro dell’evento per garantire la sicurezza delle fasi di soccorso”.
In un punto del decreto di sequestro si dice che “le operazioni sono avvenute tutte in acque SAR libiche”, in altri si parla di acque internazionali.
Secondo il magistrato, da Open Arms usano una scusa e dicono di aver perso il contatto radio con i loro Rhib (gommoni di soccorso), che sono 20 miglia più avanti, e di non poterli quindi richiamare indietro. Capitano e capomissione di OA si sarebbero poi confrontati fra di loro e con il coordinatore dell’Ong in Spagna, decidendo di continuare ricerca e soccorso.
Del minaccioso avvicinamento di una motovedetta della Guardia costiera libica che insiste, armi alla mano, per farsi consegnare i migranti soccorsi (“se non ce li date vi uccidiamo”), di cui ProActiva Open Arms ha diffuso questo video, nelle carte non si fa menzione.
Si dice poi che solo due ore dopo il salvataggio, già in rotta verso nord, Open Arms chiede al comando di Roma che come da procedura le venga assegnato un porto di attracco per sbarcare i migranti (e scriverà poi che non le viene assegnato perché ha rifiutato di lasciare i migranti ai libici). Il comando risponde che non glielo può assegnare perché siccome la competenza è libica, la prassi vuole che facciano richiesta al proprio stato di bandiera, cioè la Spagna. Gli ufficiali a bordo lo comunicano alla loro Ong in Spagna, e da lì attendono istruzioni, sempre navigando verso nord.
Il mattino dopo, il 16 marzo, su richiesta del medico di bordo, OA arriva in acque Sar maltesi e sbarca un neonato di tre mesi e la madre all’Isola dei Cavalieri dopo aver ottenuto la relativa autorizzazione – un trasbordo che richiede tutta la mattinata. Qui si dice che “le autorità maltesi chiedevano al capitano quali fossero le sue intenzioni e lo stesso riferiva di procedere con la navigazione lasciando il loro territorio”. Non si comprende affatto se a OA sia stato offerto di sbarcare i migranti a Malta, o se avrebbe potuto ottenere un porto maltese per tutti i migranti a bordo, né quindi se abbia rifiutato una qualche offerta.
Subito dopo, il comando di Roma suggerisce a OA proprio di inviare la richiesta di porto anche a Malta, già che si trovano nelle vicinanze. OA reitera la richiesta di porto alle autorità italiane, ricevendo la stessa risposta del giorno prima: che devono farne richiesta alla Spagna. Malta dice di non aver ricevuto alcuna richiesta da OA, la Spagna le suggerisce a sua volta di chiedere a Malta; Roma insiste con la Spagna, che a sua volta insiste con OA in teleconferenza, ma il capitano non vuole chiedere a Malta, perché immagina che riceverà un rifiuto; “alla fine” (nelle carte non ci sono altre spiegazioni) Roma assegna a OA il porto di Pozzallo, dove la nave troverà ad attenderla la polizia.
Nella seconda parte del decreto di sequestro, in cui si motivano le accuse, si dice che “il comportamento degli odierni indagati risulta inoltre in violazione dei dettami del Codice di Condotta che è stato dettato dalle Autorità Italiane, codice siglato da varie Ong e comunque vincolante per tutti coloro che si rivolgano all’Imrcc di Roma”. Non è chiaro perché si ricorra alla [ignota] valenza giuridica del Codice, visto che le stesse norme venivano già osservate prima che il Codice esistesse, dovendo tutte le navi per legge rispondere al coordinamento del comando di Roma, con cui OA si è infatti coordinata.
Il decreto sostiene anche che OA, rifiutandosi di lasciare l’operazione di salvataggio ai libici e di chiedere il porto di attracco a Malta, avrebbe rischiato la vita dei migranti, che altrimenti non sarebbero stati in immediato pericolo (eventualità che obbliga al soccorso). Nelle carte, però, che ci fosse una possibilità concreta che Malta fosse disponibile a ricevere i 218 migranti resta soltanto un’ipotesi.
Su che basi poggiano le accuse?
Il “reato di solidarietà” in mare è ormai un dato di fatto. Salvare qualcuno da un naufragio e portarlo in Italia può essere punito anche con il carcere. Il reato non esiste con questa dicitura, ovviamente, ma nella sostanza è su questo concetto che si incardina la decisione della Procura di Catania di sequestrare la motonave Open Arms.
Per capire su quali basi giuridiche si poggia il decreto di sequestro, abbiamo parlato con l’avvocato Francesco Del Freo, esperto di diritto penale transnazionale. In punto di legge, le normative possono essere interpretate contro la Ong: “il comportamento di Open Arms si configura come un reato, Zuccaro [il procuratore generale di Catania] ha dei motivi per aver ordinato il sequestro della nave”, spiega. “Coscientemente hanno violato gli ordini dell’autorità italiana. Dura lex sed lex: la legge prevede che ci sia la consegna dei migranti ai libici. Altrimenti sarebbe il caos”.
Così è previsto al primo punto del Codice di condotta delle Ong, adottato lo scorso agosto per volontà del ministero dell’Interno. Nel Codice si fa riferimento alle acque territoriali libiche, mentre nel caso di Open Arms il salvataggio è avvenuto in acque internazionali (73 miglia, secondo l’Ong). Il coordinamento era stato affidato dal Mrcc di Roma alla Guardia Costiera di Tripoli. Se un’Ong avesse voluto proprio intervenire, avrebbe dovuto consegnare i migranti ai libici.
Tutte le Ong hanno sempre cercato di evitare questo tipo di trasbordo, perché poi i migranti non avrebbero opportunità di chiedere asilo e sarebbero trattenuti in centri di detenzione nei quali le Nazioni Unite (ultimo il rapporto redatto da Unsmil nel febbraio 2018) hanno riscontrato ripetute violazioni dei diritti umani. “L’opinione dell’Onu non può comunque essere considerata allo stesso livello di una fonte normativa. Tutto quello che succede deve essere riferito a norme vigenti”, argomenta Francesco Del Freo. In sostanza, dunque, rifiutare la consegna è un atto di disobbedienza civile, che seppur legittimo sul piano politico, deve per forza essere perseguito sul piano giuridico. Per le Ong, però, accettare di consegnare i migranti ai guardacoste libici vorrebbe dire tradire il proprio mandato umanitario.
Per quanto non abbia valore legislativo, visto che riafferma comportamenti già previsti dal diritto internazionale, è proprio il Codice di Condotta delle Ong a facilitare il sequestro di chi non si attiene a queste regole: “l’inosservanza degli impegni in esso previsti”, vi si legge, “può comportare l’adozione di misure da parte delle Autorità italiane nei confronti delle relative navi”. Leggasi: sequestro della motonave.
C’è un altro retropensiero che non viene esplicitato, ma sul quale si basano le accuse: visto che la motonave è intervenuta in tre occasioni prima dei libici ai quali era stata affidata l’operazione, e ha ignorato l’ordine di fermarsi, allora gli operatori umanitari sono d’accordo con i trafficanti. Nel decreto non è mai scritto in questo modo, ma la gravità dei reati ipotizzati, oltre al “concorso” dei vertici dell’organizzazione, lasciano intendere che la Procura, ancora una volta, sostenga le tesi “ong=taxi del mare”. Il teorema è lo stesso del procedimento contro la Iuventa.
Nel caso Iuventa l’ipotesi investigativa si basava su incontri fra gommoni che si supponeva appartenessero all Ong e barche che gli investigatori ritengono a disposizione dei trafficanti di uomini. Imbarcazioni, spesso, con una lunga fedina penale alle spalle, come abbiamo documentato nel caso della Shada.
Nel caso Open Arms, però, tutto questo è lasciato alle deduzioni. Non ci sono incontri sospetti, ma solo ordini non eseguiti: quello di non intervenire prima della Guardia costiera libica, e quello di chiedere a Malta di poter trasbordare lì i migranti.
A differenza del sequestro della Iuventa, in quello della Open Arms non ci sono localizzazioni dei salvataggi, avvenuti genericamente in “acque internazionali”. Secondo quanto riportato sui social media dalla Ong, l’incrocio con la Guardia costiera libica avviene tra le 73 e le 74 miglia dalla Libia, tra le 16.50 e le 17.30 del 15 marzo. Open Arms stava risalendo verso nord alla ricerca di un “evento Sar” e nel frattempo si è “imbattuta” in altri due episodi, tutti di competenza della Guardia costiera libica. A guardare il tracciato marittimo sul software Marine Traffic, è impossibile indicare la distanza tra la PC Bigliani Ras Jadir 648, motonave italiana in dotazione ai libici che ha partecipato all’operazione Sar e ha minacciato Open Arms, e i luoghi dei salvataggi: le navi militari non sempre sono rintracciabili attraverso i software pubblici. Lo stesso pattugliatore libico è stato protagonista anche dell’incidente del novembre 2017 con la Sea Watch (in questo video si vede a 22’25’’) . Come rivelato da Amnesty International, il dono italiano della PC 648 è stata presentato in due cerimonie ufficiali: una a Gaeta il 21 aprile 2017 e una al porto di Abu Sittah, il 15 maggio 2017.
La competenza dei salvataggi spetta ai libici perché gli eventi sono avvenuti nella Search and rescue region (Srr) – l’area di competenza dei salvataggi – teoricamente assegnata alla Libia. Ma come tutto ciò che riguarda Tripoli, non c’è alcuna chiarezza rispetto anche solo all’esistenza di questa Srr. L’organismo internazionale che riconosce le zone Srr si chiama International Maritime Organisation (Imo) ed è un organismo delle Nazioni Unite. In pratica ogni paese membro notifica l’estensione della Srr all’Imo, a cui spetta una valutazione interna per stabilire se questa è proporzionale alla flotta che il paese ha a disposizione in caso di “eventi Sar”. La notifica di Srr viene inserita in un database dell’Imo, il Global integrated shipping information system (Gisis). E al momento non c’è traccia della domanda della Libia, paese che peraltro non ha nemmeno sottoscritto la Convenzione di Amburgo che istituisce le zone Sar, né la convenzione sui diritti dei migranti.
Alla Libia l’Imo non ha nemmeno riconosciuto un suo Mrcc. Nei fatti, questo si trova a bordo di nave Tremiti, imbarcazione della Guardia costiera italiana attraccata a Tripoli, e risponde direttamente a Roma. Esiste da quando è in vigore il Memorandum of understanding Italia-Libia, e da quando l’Italia sta formando i guardacoste libici. Esiste anche un progetto per realizzare il Libyan maritime rescue coordination centre (Lmrcc) “condotto dalla Guardia costiera italiana e finanziato dalla Commissione europea”, spiegano dall’Imo. Con la fine della legislatura, la prospettiva di un nuovo governo in Italia e una situazione in Libia sempre più complessa, è difficile prevedere se questo accordo resterà in piedi.
Intorno alle 9 del mattino del 16 marzo, Open Arms sta facendo rotta verso Nord. Su Marine Traffic è possibile vedere che la motonave è affiancata da Melita I, imbarcazione della Guardia costiera maltese. Da Open Arms vengono trasbordati il neonato e sua madre, con mare grosso. A questo punto non è chiaro ciò che accade. A logica, il porto sicuro più vicino a cui attraccare sarebbe proprio Malta, ma la procura di Catania scrive che dopo il trasbordo del neonato, il comandante di Open Arms, nonostante l’ordine di farlo impartito dal Mrcc italiano, si rifiuta di chiedere l’attracco perché pensa che Malta declinerebbe. Ma come mai?
Il suo non è un comportamento ligio alle regole, ma di certo è basato sull’esperienza: Malta infatti accetta solo trasbordi di persone singole, in pericolo di vita. È prassi consolidata. Ormai due anni fa, a novembre 2015, il sito Euobserver citava la direttrice del Jesuit Center di Malta, Katerine Camilleri, secondo cui il numero di arrivi sull’isola è molto sceso a seguito di un accordo tra l’allora Presidente del consiglio italiano Matteo Renzi e il premier maltese Joseph Muscat: l’Italia avrebbe accolto tutti in cambio della possibilità di fare esplorazioni in acque maltesi alla ricerca del petrolio, come suggerito dall’opposizione nazionalista a Malta. L’ipotesi è stata più volte sconfessata dal governo maltese, ma è innegabile quanto l’isola partecipi poco – anche data la carenza di strutture – all’accoglienza dei migranti.
L’impianto accusatorio nei confronti di Open Arms costituisce un precedente importante. È la prima volta che i vertici di un’organizzazione sono accusati “in concorso” del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non sono più salvataggi isolati ritenuti ambigui per il modo in cui si sono sviluppati, ma è lo stesso intento dell’Ong a essere messo in dubbio. Lo scontro cominciato la scorsa estate è a un punto decisivo: da un lato ci sono la Procura di Catania e il Ministero dell’Interno, dall’altro quel poco che resta delle Ong in mare. Al di là delle infrazioni rilevate, infatti, sembra evidente l’intento dell’accusa di impedire alle navi delle Ong di stare in mare durante i salvataggi, rendendo il loro compito impossibile o superfluo.
Cosa dice ProActiva Open Arms
“Si tratta di un salvataggio effettuato in acque internazionali di persone in pericolo di vita”, spiega durante una conferenza stampa al Senato mercoledì 21 marzo Oscar Camps, fondatore di Proactiva Open Arms. “Siamo orgogliosi”, aggiunge, “di aver potuto portare le persone salvate a Pozzallo tutte vive. Ma devo dire che le autorità non ci hanno reso questo lavoro facile”.
La giornata era iniziata con una chiamata dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana alla Open Arms, che segnalava un barcone in difficoltà a 25 miglia dalle coste libiche. La nave della Ong ha proceduto ai soccorsi e ha tratto in salvo 117 persone. “In quel frangente siamo stati avvisati che era presente quella che viene chiamata Guardia costiera libica e che avrebbe preso il coordinamento delle operazioni. Era la prima volta che ci veniva detta una cosa del genere: significava che si sarebbero sostituiti all’Imrcc”, racconta Riccardo Gatti, capo missione di Proactiva Open Arms.
Successivamente l’equipaggio ha ricevuto un’altra segnalazione. Quando la Open Arms è arrivata in prossimità dell’imbarcazione, però, l’ha trovata vuota: la motovedetta libica era arrivata prima, e aveva già preso i migranti per riportarli indietro.
Più tardi, alla nave della Ong è arrivata una terza chiamata dall’Imrcc, che segnalava un’imbarcazione in difficoltà con a bordo 101 persone, a oltre 73 miglia dalla Libia. Anche stavolta, sarebbero stati i libici ad avere il coordinamento. Raggiunta l’area, Open Arms ha iniziato i soccorsi, imbarcando prima le donne e i bambini.
A quel punto è arrivata una motovedetta della guardia costiera libica, che ha bloccato i Rhib della Ong e, con le armi spianate, ha minacciato gli operatori di morte se non avessero consegnato i migranti soccorsi. Ma l’equipaggio spagnolo si è rifiutato. “La richiesta”, spiega Gatti, “è arrivata dopo la minaccia di spararci. Ci sono normative internazionali che proibiscono la deportazione e il respingimento diretto. Il salvataggio finisce quando le persone vengono lasciate in un posto sicuro, che può essere anche una nave, ma deve essere sicuro”. In secondo luogo, dice, “non possiamo fidarci della Guardia costiera libica, che ci aveva già ‘attaccati’ in tre occasioni: una volta ci ha minacciato, un’altra ha sparato colpi in aria, e una terza ci ha sequestrato per ore”.
La presenza dei libici aveva creato il panico tra i migranti. Camps ricorda come alla vista delle armi, dieci persone si siano buttate in acqua: “tre operatori che stanno facendo un salvataggio con una piccola barca non possono opporsi a libici con armi, ma non possono neanche andare contro la volontà di coloro che stanno soccorrendo. Oltre alle minacce di morte, ci siamo trovati davanti a dieci persone in mare che rischiavano di annegare”.
I gommoni, intanto, avevano perso il contatto radio con la Open Arms. “A venti miglia di distanza lo perdiamo. Hanno scritto che era una scusa, ma non è così”, spiega Gatti.
Improvvisamente, dopo circa due ore, i libici si sono ritirati. Open Arms ha inoltrato la richiesta per il porto di sbarco, ma il governo italiano ha risposto di rivolgersi a quello spagnolo. Nell’attesa dell’assegnazione del porto, la nave ha proseguito verso nord: “empiricamente eravamo diretti in Italia, in 43 missioni e almeno 80 sbarchi siamo stati mandati sempre lì”, spiega Gatti. Quanto alle polemiche sul mancato sbarco a Malta aggiunge: “l’Italia ci ha detto che il governo spagnolo avrebbe dovuto fare la richiesta. Non sappiamo cosa Malta abbia detto alla Spagna, a noi direttamente nulla. Poi, da dieci anni o forse più non accettano migranti, sono cose che quando stai lavorando sai”. Camps è ancora più duro sulla questione, e insiste sul fatto che sia l’Imrcc “l’organo che attiva la procedura per l’individuazione del porto. Non possono scaricare responsabilità”.
Alla fine, Open Arms ha avuto l’autorizzazione a sbarcare a Pozzallo. “Quando siamo arrivati pensavamo di essere stati vittime di un attacco. Come sempre abbiamo collaborato e reso dichiarazioni, stavolta molto lunghe. Ma poi tutto si è concluso in un altro modo”.
Secondo Alessandro Gamberini, legale della capomissione indagata, il provvedimento di sequestro è “povero di argomentazioni serie e coerenti”, nonché “una forzatura”: “la cosa che colpisce è la pretesa della procura di Catania: se si fosse trattato solo di immigrazione clandestina, la competenza sarebbe stata della procura di Ragusa [la provincia in cui si trova Pozzallo]. Ma Catania attraverso la Direzione distrettuale antimafia ha contestato l’associazione per delinquere, che le consente di avocare la competenza”. Nel decreto, tra l’altro, aggiunge Gamberini, “si descrive un’area Sar libica, di cui però la Libia non dispone. È illegittimo destinare il coordinamento ai libici, e quindi il riferimento del decreto è infondato sia da un punto di vista normativo che fattuale”.
Quanto alle supposte violazioni del Codice di condotta delle Ong da parte di Open Arms, il senatore uscente e attivista per i diritti umani Luigi Manconi precisa come questo “non abbia alcuna forza di legge. È un accordo pattizio tra il ministero e un privato. Non ritengo ci sia stata violazione, ma qualora ci fosse stata non sarebbe di certo un reato”. Nel codice, tra l’altro, “il compito di avvisare il proprio stato di bandiera è definito un impegno. Quello di salvare chi è in pericolo è un obbligo. La gerarchia è chiarissima”.
NB: rispetto alla prima versione dell’articolo abbiamo corretto un’imprecisione sulla procura di Catania, perché fu la procura di Trapani a ordinare il sequestro della Iuventa.
In copertina: immagine tratta dalla pagina Facebook di ProActiva Open Arms.