Le stesse Ong che fino a pochi mesi fa venivano osannate per la loro opera, dopo mesi di attacchi incrociati hanno ricevuto dal governo italiano un codice di condotta che, se non sottoscritto, potrebbe impedire loro di continuare a operare nel Mediterraneo centrale. Come è di fatto già successo alla Ong tedesca Jugend Rettet, che si è vista sequestrare la nave Iuventa con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione il giorno dopo aver rifiutato la firma del codice.
Perché si è iniziato a ‘sparare sulla Croce Rossa’?
Di risposte puntuali alle accuse nei confronti delle Ong ne sono state formulate diverse. Tra le tante ricordo qui solo quella di Marco Bertotto, responsabile Advocacy di Medici senza frontiere (Msf), secondo il quale: ‘le critiche che ci vengono rivolte ora: essere con la nostra presenza un pull factor, fattore di attrazione, influenzando le scelte dei trafficanti e spostando l’asse dei salvataggi troppo vicino alla Libia […] servono solo ai leader europei per distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero problema’: la mancanza di canali sicuri e legali per le persone che vogliono raggiungere l’Europa. Oppure quella di Nando Sigona, che si spinge oltre, denunciando come ‘la criminalizzazione dei volontari mira a scoraggiare il coinvolgimento della società civile europea, e da ultimo a indebolire e dividere l’ultimo bastione contro una linea dura dell’Ue nei confronti dei rifugiati’.
La rappresentazione mediatica della “crisi dei migranti” e l’anestetizzazione morale dell’opinione pubblica
Come ulteriori elementi per comprendere il fuoco incrociato contro le Ong che operano da ‘taxi’ o ‘ambulanze’ (a seconda del punto di vista), aggiungo qualche riflessione sul ruolo giocato dai media, utile a comprendere il rapporto ambivalente che lega da sempre umanitarismo e politica. Protagonista degli ultimi anni, il Mediterraneo come confine – cognitivo e morale, ancor prima che geografico o politico – deve essere inteso come un ‘fatto sociale con una dimensione spaziale’, un paesaggio mediatico che svolge una ‘funzione di configurazione del mondo’ che non è dato a priori. E i fatti di queste settimane dimostrano quanto plastica e contingente, perché correlate al periodo storico e sociale, sia questa configurazione.
La società contemporanea è piena di confini, porosi eppure generatori di conflitto, e per quanto vengano quotidianamente valicati, sia nella realtà concreta che nel mondo simbolico, i media contribuiscono nel demarcarli sotto molti punti di vista. Finestre sul mondo, croce e delizia moderna, i media spingono il limen dello schermo oltre i confini – a volte favorendo reti internazionali che si impegnano in nome di una comune umanità per promuovere una cittadinanza cosmopolita (come fanno, tra gli altri, le Ong), altre reiterando infelici stereotipi sul diverso che incitano alla discriminazione e legittimano la costruzione di muri. O l’indifferenza dinanzi a migliaia di persone che annegano in alto mare. I media ci mettono di fronte a paesaggi stupefacenti e scomodi, e al contempo ci legittimano a fare finta che là fuori non ci sia nulla, o che quantomeno non ci riguardi.
La rappresentazione della cosiddetta ‘crisi dei migranti’ ci fa capire il grado di immersione in un mondo sempre più condiviso a livello mediatico, ma non per questo ci offre gli strumenti adeguati per comprendere diversità e disuguaglianza, né tanto meno per sentirci responsabili di questa. ‘Adiaforizzazione’ è come Bauman definisce questa tendenza a dispensare le azioni umane dal giudizio e, persino, dal significato morale.
La duplice narrazione del Mediterraneo come confine
Il Mediterraneo è oggi confine di un mondo politico che va ben oltre lo Stato-nazione, dove la libertà di movimento, da sempre una merce scarsa e distribuita in maniera ineguale, è il principale fattore di stratificazione sociale. Come abbiamo visto con i 30 mila morti degli ultimi vent’anni, per quanto si cerchi di scoraggiare gli aspiranti richiedenti asilo attraverso blocchi, respingimenti e rimpatri, quel mare di mezzo che noi definiamo ‘mare nostro’ resta più attraente della paura di attraversarlo. Al punto che le immagini tragicamente epiche del Mediterraneo sono diventate pane quotidiano per i media, che spesso inquadrano un fenomeno storico e strutturale attraverso le lenti dell’emergenza umanitaria o del discorso securitario. Duplice narrazione che ha assunto un ruolo sempre più importante nella definizione delle politiche, delle norme e delle pratiche dei paesi europei in materia di (o contro la) immigrazione.
Come già scritto, questa duplice narrazione è ben visibile nella comunicazione della Marina Militare Italiana durante l’operazione Mare Nostrum. A partire dalle immagini prodotte dai nuovi ‘inviati al fronte’, il controllo delle frontiere viene ridefinito nel contesto di un immaginario morale che pone l’accento sulla vulnerabilità umana. Le attività dei soldati imbarcati rispecchiano una più generica femminilizzazione della guerra che si fa umanitaria, e rispecchia la nuova immagine dell’esercito che opera in veste di salvatore. Il ‘campo di battaglia umanitario’, messo in scena anche da produzioni come La scelta di Catia, viene espresso attraverso un’estetica del trauma, in cui la guerra (ai migranti) è rappresentata come un’intima esperienza di dolore e al tempo stesso come un pubblico atto di peace-making.
Da “angeli del mare” a “taxi per migranti”: il cortocircuito della narrazione dell’umanitarismo
Perché dunque l’operazione semantica messa in atto durante Mare Nostrum, effettuata in stretta collaborazione con le Ong, oggi si è incrinata? Cosa ha portato lo stesso Stato che definiva umanitarie le proprie operazioni militari a muovere contro le Ong addirittura una guerra giudiziaria, che è in primis mediatica? Il passaggio, nel 2014, da Mare Nostrum – criticato in Italia per i suoi enormi costi e considerato da alcuni paesi europei un attrattore per quanti tentavano la traversata – a Triton e Eunavfor Med, oltre alla rinnovata presenza di Frontex, quali missioni di mero ‘border control’, risponde in parte al quesito. Il fatto che durante Mare Nostrum non ci fossero Ong in mare che, in maniera indipendente, operassero in acque internazionali mentre oggi se ne contano ben dieci, responsabili del 40 per cento dei salvataggi al limite delle acque libiche, aggiunge un altro importante tassello. Ma per comprendere le critiche alle Ong è necessario rivedere il ruolo storicamente assunto dell’umanitarismo, a partire dalle procedure cognitive che questo opera per stabilire una relazione simpatetica tra lo spettatore di fronte allo schermo e chi soffre a distanza.
Iniziamo dal definire l’umanitarismo. Più che imperativo morale universale ad agire in aiuto dei più vulnerabili, anche se distanti e sconosciuti, l’umanitarismo è da intendere come una specifica articolazione storica della solidarietà cosmopolita, che interviene direttamente nel sud del mondo attraverso organizzazioni specializzate cercando legittimità in occidente tramite una struttura comunicativa che diffonde discorsi morali di cura e responsabilità. Se andiamo oltre l’insieme degli attori umanitari, per analizzare la struttura comunicativa che ne legittima le pratiche sul campo e le stesse istanze che le organizzano, possiamo osservare come il capitale simbolico dell’umanitarismo, negli ultimi cinquant’anni, ha conferito alle rappresentazioni delle ‘crisi’ un orizzonte di senso, organizzando così la nostra percezione di quella realtà.
Con il suo ‘spettacolo del dolore a distanza’, per citare Boltanski, dal Biafra al Vietnam alla ‘crisi dei migranti’, l’umanitarismo si è fatto portatore di schemi consolidati della cultura occidentale – l’aiuto, la colpa, l’eroismo, la redenzione – diventando un quadro di riferimento onnipresente, attraverso cui oggi si segnala o si richiama la morale pubblica. In tal senso, l’umanitarismo funge sia da ‘operatore di visibilità’ degli eroi e delle vittime – le fa scoprire o ne attesta la realtà – che da ‘operatore di leggibilità’ – attribuisce loro un significato in quanto rappresentazione. E si configura così come un’istituzione che Mesnard definisce di ‘alta polizia’, perché ha ‘il compito di ordinare le emozioni, di istituirne e perpetuarne l’ordine, di regolarne i movimenti, di normalizzarne le novità, di assicurare la condivisione della sfera del sensibile, secondo precise modalità estetiche e cognitive’.
E’ dunque facilmente ipotizzabile che durante Mare Nostrum lo Stato abbia strumentalizato non solo le Ong a bordo delle navi da guerra, ma soprattutto i discorsi e l’immaginario ad esse collegato per coltivare la propria immagine benevola nella gestione del flusso di richiedenti asilo manu militari, legittimando le proprie azioni sul piano della rappresentatività morale. Se così è stato (e alla luce del poi verrebbe da pensarlo), perché questa ‘repressione compassionevole’, per dirla à la Fassin, entra in cortocircuito oggi? Probabilmente perché oggi gli ‘scafisti’ politici e intellettuali sono riusciti a riformulare le categorie chiave del discorso sulle migrazioni in termini securitari, discriminatori, xenofobi. Leader politici europei (ma non europeisti quando si tratta di questo tema), capi locali in cerca di voti, giornalisti e persino giudici hanno sponsorizzato l’idea che ad attraversare il Mediterraneo siano migranti economici (il 90 per cento, sostiene Macron) senza il permesso (né il diritto) di entrare nei nostri paesi e approfittare dei nostri servizi – di per sé già in crisi a causa di uno stato sociale in continua dismissione – o rubare il nostro lavoro. Sino a trasformare l’equivalenza politico amministrativa tra confine-crimine-immigrazione in un luogo comune adottato da tutti. Da cui consegue che quanti si oppongono a questo processo di criminalizzazione degli immigrati, protestando contro l’arbitrio poliziesco e giuridico dello Stato, ne subiranno le conseguenze penali.
Il rifiuto di firmare il codice di condotta da parte di alcune Ong si muove sullo stesso solco del rifiuto a collaborare e alle dure critiche rivolte dapprima all’accordo fra Ue e Turchia e poi a quello fra Italia e Libia. In quell’occasione, alcuni degli stessi attori umanitari che avevano partecipato alla missione Mare Nostrum hanno fatto sentire la loro voce sollevando domande sulla (tremenda) gestione europea della crisi, e denunciando come spesso l’umanitarismo venga confuso con la responsabilità politica. Il discorso di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, dell’8 marzo 2016, nel denunciare come l’emergenza umanitaria non debba essere necessariamente una crisi, ma può essere gestita da una leadership e un intervento della politica, ricorda quello di James Orbinski che nel suo discorso d’accettazione del premio Nobel per la pace a Msf nel 1999 definiva l’umanitarismo ‘un’iniziativa immediata e a breve termine che non può cancellare il bisogno, sul lungo periodo, di un’assunzione di responsabilità della politica’.
La messa in crisi dello ‘spettacolo del dolore a distanza’ e l’umanitarismo alla prova (della) politica
Infine, credo che a questa anestetizzazione morale dell’opinione pubblica contribuisca anche un cortocircuito della teatralità della comunicazione umanitaria, prodotto dalla prossimità fisica tra la vittima/straniero e lo spettatore/cittadino, amplificata a dismisura dai media nazionali. Ovvero dalla messa in crisi dello ‘spettacolo del dolore a distanza’ tipico della solidarietà cosmopolita moderna. Quella distanza che l’umanitarismo pretendeva di annullare, interpellando la nostra indignazione o pietà con la sua urgente richiesta di azione, di solito ridotta a due sole opzioni: pagare e parlare.
Seppur involontariamente, dando per scontata la distanza tra lo spettatore e la vittima, il vocabolario moralizzante tipico dell’immaginario umanitario ha ricalcato l’asimmetria di potere tra Nord e Sud del mondo. Ritrovandosi così in crisi nel momento in cui l’altro vulnerabile si avvicina al comfort del benefattore nel vano tentativo di superare il confine che li separa. In altre parole, se la comunicazione umanitaria nell’ultimo mezzo secolo si è concentrata sull’aiuto dei più vulnerabili distanti da noi, il fatto che i disperati tratti in salvo nel Mediterraneo vengano poi fatti sbarcare sulle nostre coste accorcia la distanza tra lo spettatore e la vittima, tendendo così a confondere la nostra zona di comodità e sicurezza con quella della vulnerabilità e del pericolo.
Il che palesa la paradossale tensione – insita dell’umanitarismo e propria della nostra relazione con il ‘diverso’ – tra benevolenza e sospetto, generosità e respingimento, compassione e repressione, carità e riconoscimento dei diritti. I dubbi e le minacce verso i ‘taxi del mare’ che farebbero affari con i trafficanti di uomini sembrano dunque la conseguenza più evidente e triste del fatto che l’umanitarismo va bene sino a quando agisce come strumento ‘paternalistico’ nei confronti del sud del mondo, allo scopo di legittimare l’immagine di benevolenza dei governi, gestire la miseria e neutralizzarne gli effetti più distruttivi e pericolosi per ‘noi’. Merita invece di essere denunciato, ostacolato, e persino interdetto, quando pretende di fare a meno della politica, per correggerne gli errori o sostituendosi ad essa.
Che sia giunto dunque il momento per gli operatori umanitari di denunciare l’ingiustizia sociale spingendosi oltre alla mera indignazione di fronte alla sofferenza? Di provare a ristabilire un legame sociale egualitario politicizzando la morale (e non solo introducendo argomenti morali nella politica)? Ma potremmo poi definirlo ancora umanitarismo o diventerebbe politica? Quanto succede oggi nel Mediterraneo, a partire dalle ultime divisioni sulla firma del codice di condotta, lascia intuire che molti attori dell’umanitarismo preferiscono non porsi certe domande, né pagare le conseguenze di possibili risposte. Nel mentre, una questione altamente politica qual è la migrazione e l’asilo politico, resta ridotta a pericolose e sterili diatribe tra partiti politici.
Foto di copertina: Pixabay (CC BY 2.0).