1. Dobbiamo davvero parlare di (I): Manus
Siamo dall’altra parte del mondo, a Manus, anche detta “la Guantanamo australiana” – si sa, Paese che vai, detenzione offshore che trovi!.
Ma che non si possa dire: lontano dagli occhi, lontano dal cuore – perché di quello che sta avvenendo sulla piccola isola di Papua Nuova Guinea, dove l’Australia ha detenuto per anni in condizioni disastrose centinaia di richiedenti asilo, non si può davvero non parlare.
Dal 31 ottobre, niente più luce, acqua e cibo nel centro di detenzione australiano, che ha ufficialmente chiuso. Una chiusura tante volte auspicata, ma che non è da festeggiare. Chi non ha ottenuto la protezione, infatti, dovrà andarsene; ma non si sa dove o come, visto che la maggior parte dei 600 “ospiti” – soprattutto iraniani – non possono tornare nel proprio Paese. Da sei giorni, centinaia di persone sono state abbandonate a se stesse, senza nemmeno l’essenziale per sopravvivere, in un’isola ostile che non li vuole.
Restare non è possibile, andarsene nemmeno. Quale via d’uscita da questo limbo infernale?
Da leggere:
- La spiegazione essenziale della situazione sull’isola di Manus – di Russell Goldman e Damien Cave per il New York Times;
- Il “diario del disastro” tenuto sul Guardian da Behrouz Boochani, rifugiato iraniano detenuto a Manus da più di tre anni, che racconta con durezza e disperazione il deteriorarsi della situazione;
- L’analisi di Geraldine Cremin per Refugees Deeply del processo di degenerazione delle politiche australiane in materia di immigrazione e asilo che ha portato al disastro di Manus;
- Il punto del Post sull’emergenza umanitaria sull’isola (e l’offerta di Russell Crowe di accogliere sei rifugiati a casa propria).
2. Dobbiamo davvero parlare di (II): Rohingya
Non accenna a migliorare la situazione dei Rohingya, in fuga dalla Birmania per tentare di sfuggire alla vera e propria pulizia etnica che sta avendo luogo nel Paese, costretti a cercare rifugio in un Bangladesh che non li vuole e non li protegge. Una situazione disperata e complessa, negata dalla Birmania e trascurata dalla comunità internazionale, le cui radici sono profonde – e che necessita urgentemente di soluzioni. Ma quali?
Da leggere:
- L’approfondimento di Jeffrey Gettleman per il New York Times su chi ha davvero in mano il destino dei Rohingya;
- L’intervista di Laignee Barron a Francis Wade per Refugees Deeply, che ripercorre la storia recente della Birmania per ricostruire come si è arrivati alla attuale “tempesta perfetta” di discriminazione etnica e religiosa;
- L’approfondimento interattivo di AFP sulla situazione “senza via d’uscita”;
- Il reportage di Francesca Marino per l’Espresso, che racconta la storia della “minoranza più perseguitata al mondo”;
- La dura condanna del New York Times nei confronti di Aung San Suu Kyi, leader birmana e premio Nobel per la pace, per l’immensa responsabilità morale per quanto sta avvenendo.
3. Le conseguenze dell’esternalizzazione (I): le responsabilità dell’Europa in Libia
Per conoscere tanto orrore non serve purtroppo viaggiare dall’altra parte del mondo – basta affacciarsi a guardare cosa succede dall’altro lato del nostro mare. Le conseguenze delle politiche italiane ed europee in Libia sono infatti terribili, ed evidenti: le guerre tra milizie, l’instabilità che cresce invece di diminuire, il buco nero dei centri di detenzione (e l’utopia di una loro “umanizzazione”). Prova a fare il punto sulla drammatica situazione Eric Reidy nella prima puntata della sua inchiesta per Irin News. Da accompagnare al reportage da Tripoli di Francesco Semprini per La Stampa.
4. Le conseguenze dell’esternalizzazione (II): chiusa una rotta, se ne apre un’altra
Nei mesi scorsi il flusso di migranti in arrivo in Italia si sia ridotto. Non è successo – affatto – per caso, bensì a seguito di precise politiche e strategie europee ed italiane, volte all’unico scopo di chiudere ogni canale d’accesso. Peccato che, chiusa una rotta, se ne apra sempre (almeno) un’altra.
Il Guardian approfondisce la complessa questione attraverso una serie di importanti approfondimenti:
- Il riepilogo di Mark Rice-Oxley e Jennifer Rankin sull’“infernale tappo di bottiglia” in cui stiamo intrappolando migliaia e migliaia di migranti;
- Il reportage da Algeri di Zahra Chenaoui, che racconta come la stretta sulla Libia stia portando all’apertura di altre rotte – a partire da quella algerina;
- Il reportage da Tunisi di Jacob Svendsen e Johannes Skov Andersen, che racconta come in mare non ci siano muri che tengano, non per arginare la morte. È infatti a Zarzis e nelle altre città costiere tunisine che arrivano i corpi dei morti della rotta libica, e vanno aumentando i cimiteri dedicati a questi morti di migrazione (Giulia Bertoluzzi su Middle East Eye – come già nel suo reportage per Open Migration di qualche mese fa – racconta dei pescatori tunisini che danno sepoltura ai morti in mare).
5. Come l’Europa criminalizza la solidarietà
Ormai da tempo in Europa si registra un atteggiamento ostile verso chi aiuta migranti e rifugiati. L’attacco alle Ong che effettuano salvataggi in mare è infatti solo una espressione del più ampio trend della criminalizzazione della solidarietà che ha trovato tanti ”colpevoli di essere solidali”. L’editoriale di Frank Barat e Ben Hayes per Euractiv.
6. Calais: è passato un anno ma l’attesa non è ancora finita
Un anno dopo “lo sgombero forzato” della “Giungla”, a Calais l’emergenza umanitaria non solo non è stata risolta, ma è peggiorata. Il reportage di Alex Fusco per Open Democracy (da accompagnare al nostro reportage di qualche mese fa).
7. AAA cercasi asilo in Europa e in Germania
Quante richieste d’asilo vengono fatte in Europa, e come cambiano i numeri nei diversi Stati? Il portale A Welcoming Europe, curato dal Parlamento Europeo, illustra graficamente l’andamento delle richieste d’asilo in Europa. Allo sguardo d’insieme sulla dimensione continentale, accompagniamo un focus – di Deutsche Welle – sulla Germania, che detiene il record di richiedenti e rifugiati e dove i tempi di attesa si sono notevolmente allungati.
8. Perché mettere le città al centro dell’integrazione dei rifugiati
L’integrazione dei rifugiati passa per le città, e per questo è necessario attuare una “rivoluzione metropolitana” del paradigma dell’accoglienza – che riconosca il ruolo fondamentale degli attori urbani. L’editoriale di Bruce Katz e Jessica Brandt del Brookings Institute (che da tempo si occupa di approfondire la tematica città e rifugiati) e quello di Alice Charles e Dilip Guna del World Economic Forum (che ha da poco pubblicato un approfondito studio a riguardo). Da accompagnare ai nostri approfondimenti a riguardo (sulle città oltre l’accoglienza e un nuovo paradigma di integrazione).
9. Come la tecnologia può aiutare rifugiati e migranti: il caso blockchain
Di come la cosiddetta “crisi dei rifugiati” abbia stimolato la comunità tech a mettere a disposizione le proprie competenze per trovare soluzioni innovative per l’emergenza umanitaria, abbiamo già parlato (evidenziando anche i limiti di questo approccio). Oggi torniamo a farlo guardando all’impatto della tecnologia blockchain: che viene utilizzata in Giordania (e, si spera, presto altrove) per distribuire aiuti ai rifugiati, in Finlandia per accelerare l’integrazione dei richiedenti asilo, e a Singapore per permettere ai lavoratori migranti di ricevere un compenso nonostante la posizione di irregolarità. A fare il punto sul grande potenziale di blockchain: l’articolo di Ben Paynter per Fast Company e quello di Angela Wells e Lara Llopis per Tech’s Good, che spiegano come blockchain può (e lo sta già facendo) rivoluzionare l’aiuto umanitario.
10. L’arte per i rifugiati
L’arte come strumento prezioso per raccontare e ricordare, per denunciare, per guarire. C’è l’artista rifugiato siriano che “apre i bagagli” dei suoi compagni di sventura e li racconta al pubblico attraverso diorama delle loro case e vite (lo racconta Matt Petronzio su Mashable), c’è Ai Wei Wei che usa l’arte per mettere a nudo il non-sense dei confini (lo racconta Zoe Cooper su Vox), e poi ci sono i progetti che usano l’arte per l’integrazione dei richiedenti asilo: “Make Art Not Walls” nella cittadina italiana di Trevi (lo racconta Sylvia Poggioli su Npr) e nel campo profughi etiope di Adi Harush (lo racconta Rebecca Omonira-Oyekanmi su Lacuna). Da accompagnare al reportage della nostra Marina Petrillo sull’arte italiana spiegata dai migranti.
Foto via Max Pixel (CC 0).